19 Febbraio 1937: la strage degli etiopi ad opera degli italiani
In Italia non esiste un “Giorno della memoria” dedicato al ricordo delle vittime africane provocate dal colonialismo fascista. Una storia criminale rimossa e nascosta sotto il falso mito degli “italiani brava gente”. La Repubblica democratica e antifascista nata dall’abbattimento del regime mussoliniano non si è mai posto il problema. A dire il vero una proposta venne presentata nel 2006 ma poi se ne persero le tracce nei meandri del Parlamento. Quella proposta indicava anche una data, il 19 febbraio, perché in quel giorno e mese del 1937 gli italiani si macchiarono di uno dei peggiori crimini mai compiuti dai bianchi nei confronti degli africani.
L’antefatto che scatenò quella che sarà ricordata come “la strage di Addis Abeba” avvenne nella tarda mattinata, nel corso di una cerimonia ufficiale indetta dal vicerè d’Etiopia Rodolfo Graziani per festeggiare la nascita del primogenito del principe Umberto di Savoia, Vittorio Emanuele, morto proprio all’inizio di questo mese. La piazza era gremita da circa 3000 etiopi, in gran parte donne, vecchi e bambini, perchè nell’occasione Graziani aveva promesso l’elargizione di un’elemosina. Due giovani eritrei appartenenti alla resistenza etiope, Abraham Deboch e Mogus Asghedom, lanciarono otto bombe a mano contro le autorità italiane. L’attentato provocò sette morti e una cinquantina di feriti, tra cui lo stesso Graziani.
La rappresaglia italiana fu spietata. I militari spararono indiscriminatamente sulla folla inerme, uccidendo gran parte dei presenti. Il segretario federale del partito fascista Guido Cortese, che sostituì Graziani perchè in ospedale, fece distribuire armi a tutti gli italiani invitandoli a partecipare alla mattanza degli etiopi. Dal 19 al 21 febbraio si svolse quella che lo storico Angelo Del Boca definì “la più furiosa caccia al nero che il continente africano avesse mai visto”. All’eccidio presero parte non soltanto i militari e le squadre fasciste ma anche molti civili. Gli etiopi furono trucidati con tutti i mezzi: a fucilate, a colpi di bastone, attaccati ai camion e trascinati lungo le strade, bruciati vivi nelle loro capanne date a fuoco. Non esiste un calcolo preciso degli etiopi assassinati. Per le autorità italiane il numero degli uccisi sarebbe stato di appena 300. Lo storico inglese Ian Campbell, (autore del libro Il massacro di Addis Abeba, una vergogna italiana, Rizzoli editore) ha stimato che le vittime furono intorno alle 20 mila, mentre secondo le fonti etiopi esse furono almeno 30 mila,
Quella che venne considerata un’azione di “grande pulizia coloniale” non si fermò a quel tragico febbraio. Essa ebbe un seguito con la strage compiuta nella città santa di Debrà Libanòs, posta a 150 chilometri da Addis Abeba, dove l’esercito regio, su ordine di Graziani, massacrò i monaci cristiani di osservanza copta perché sospettati di aver protetto gli attentatori del 19 febbraio. Le esecuzioni sommarie vennero attuate dal generale Pietro Maletti il quale, in un rapporto del 21 maggio, scrisse che erano stati uccisi 297 monaci e 23 laici. Il 26 maggio Graziani, non soddisfatto del risultato, ordinò l’uccisione di 129 diaconi e di altre 276 persone comprendenti insegnanti e studenti di teologia. Secondo alcuni storici, però, la rappresaglia di Debrà Libanòs, il maggior eccidio di religiosi cristiani in Africa, provocò tra i 1400 e i 2000 morti.
I massacri ebbero la piena approvazione di Mussolini che considerava i capi e i componenti della resistenza etiope non dei combattenti ma solo dei ribelli da annientare con qualsiasi mezzo: impiccagioni, fucilazioni e utilizzo dei gas, in violazione di ogni regola di guerra. In un telegramma del 21 febbraio Mussolini ordinò: “Tutti i civili e i religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi senza indugi”. La ferocia dei colonialisti italiani ebbe l’effetto di far crescere il movimento patriottico e di liberazione etiope, fino al crollo definitivo dell’impero italiano d’Etiopia, in seguito all’azione concomitante della guerriglia interna e dell’intervento delle armate britanniche. Il 19 febbraio è un giorno di lutto in Etiopia e viene celebrato nella capitale Addis Abeba dove è stato eretto un grande obelisco a ricordo delle vittime dell’eccidio, mentre nessun monumento nel nostro Paese ricorda le responsabilità degli italiani.
In Italia, nel dopoguerra, non è stato celebrato alcun processo contro gli autori di questi crimini. Il generale Pietro Maletti, promosso generale di divisione “per meriti eccezionali”, morì nel 1940 in un’azione nel villaggio egiziano di Sidi Barrani. Venne decorato con medaglia d’oro al valor militare per “la sua nobile esistenza, tutta dedita alla sua missione di soldato, aperta alla voce del dovere e del sacrificio, dedicata al culto della Patria”. Al generale Maletti vennero anche intitolate delle vie nei Comuni di Mantova, Cocquio Trevisago e Castiglione delle Stiviere, dediche tolte solo in anni recenti in quanto “inopportune”. In molti Comuni italiani, però, permangono toponimi che indicano luoghi, (come Tripoli, Bengasi e Massaua) o battaglie (come Amba Aradam, Adua e Dogali) che ricordano le “imprese” coloniali fasciste.
Per la cronaca, figlio del generale Maletti è stato il colonnello Gianadelio Maletti, che nel 1971 venne nominato a capo del reparto D del SID, il servizio segreto italiano. Il colonnello Maletti nel 1979 è stato condannato a quattro anni di reclusione (ridotti a due in appello) per favoreggiamento in relazione alla strage di piazza Fontana del 1969. In una intervista rilasciata a Repubblica nel 2000 rivelò che la CIA, tramite infiltrati e collaboratori, fungeva da “collegamento tra diversi gruppi di estrema destra italiani e tedeschi”. Il suo nome venne trovato nella lista degli affiliati alla Loggia P2 di Licio Gelli.
Quanto al generale Rodolfo Graziani egli continuò la sua carriera militare e, nel corso della seconda guerra mondiale venne nominato governatore della Libia. Durante la campagna del nord Africa l’esercito italiano, guidato da Graziani, subì una dura sconfitta nonostante fosse numericamente superiore di quattro volte rispetto alle forze armate britanniche. Quando Mussolini costituì la Repubblica Sociale Italiana Graziani assunse la carica di ministro delle Forze Armate e si distinse per la repressione contro i partigiani. Il 18 febbraio del 1944 emanò un bando in cui era scritto che chiunque non si fosse presentato alla chiamata alle armi sarebbe stato punito con la pena di morte “mediante fucilazione al petto”. Nell’Italia repubblicana Graziani aderì al Movimento Sociale Italiano del quale fu nominato presidente onorario.
Il generale Graziani, soprannominato “il macellaio del Fezzan”, nel dopoguerra fu inserito nell’elenco dei criminali di guerra dalla Commissione ONU per i crimini di guerra, a causa dell’impiego dei gas letali e del bombardamento degli ospedali della Croce Rossa in Etiopia. Nel 1949 Il governo etiope chiese di processarlo ma la richiesta di estradizione venne respinta dal governo italiano. Graziani venne invece processato e condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con i nazisti, ma dopo appena quattro mesi di carcere venne liberato.
E’ passato alla storia il famoso ”abbraccio di Arcinazzo”, avvenuto il 3 maggio 1953 tra Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e Rodolfo Graziani. Nel corso di un comizio elettorale agli Altipiani di Arcinazzo, luogo d’origine del generale e feudo elettorale del giovane delfino di De Gasperi, Andreotti invitò Graziani a salire sul palco e disse che votare per il MSI significava fare un favore ai comunisti perché in questo modo si sarebbe indebolito l’unico partito in grado di fare argine al “pericolo rosso”, cioè la DC. Il messaggio che Andreotti mandava al Paese era che i fascisti erano ben accolti nella nuova Italia sorta dalla Resistenza.
Graziani ricambiò pronunciando queste parole: “E’ da ciechi o da persone in mala fede non dare atto al governo democristiano dell’opera grandiosa svolta per far rinascere la nostra Patria. L’onorevole De Gasperi, in un suo recente discorso, per la prima volta ha detto: riconosco che il fascismo ha costruito ma noi abbiamo fatto molto di più. Questo riconoscimento è un gesto di onestà di cui va dato atto (…). Se l’Italia si dovesse trovare coinvolta, sia pure a scopo difensivo, in un conflitto mondiale che minacci il mondo intero, noi combattenti del MSI non faremmo questione di obiezione di coscienza, nuova forma di diserzione, né porremmo alcun pregiudizio ideologico. I soldati che mi seguono sono pronti a dare la loro opera e ad accorrere in difesa della Patria in pericolo”. Quell’incontro di 71 anni fa pose le basi di un connubio tra DC e neofascisti che nel 1960 sfociò nella nascita del governo Tambroni, per il quale i voti dell’MSI furono determinanti.
Nell’agosto del 2012 ad Affile, in provincia di Roma, è stato inaugurato, con fondi regionali e comunali, un mausoleo dedicato al “Maresciallo d’Italia” Rodolfo Graziani. Nell’occasione don Ennio Innocenti, del clero di Roma, ha tenuto una conferenza sulla “Memoria del generale”. Tra i politici intervenuti alla cerimonia di inaugurazione c’era anche l’attuale ministro dell’Agricoltura, nonché cognato della premier Giorgia Meloni, Francesco Lollobrigida, il quale è capace di fermare i treni ma non di frenare la sua ammirazione per il criminale di guerra Rodolfo Graziani. Nel suo discorso Lollobrigida disse: “In questi giorni ci sono state tante polemiche, tante chiacchiere. Per noi della Valle dell’Aniene l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è sempre stato un punto di riferimento”.
Mario Pizzola
16/2/2024 https://www.pressenza.com/
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