La flat-tax è una mostruosità politica

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Ne era consapevole l’inquieto Pessoa, “forse la mia sorte è di essere un contabile in eterno; e la poesia o la letteratura una farfalla che posandosi sulla mia testa mi rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza….So perfettamente che il giorno in cui diventerò contabile dell’impresa Vasques & C. sarà uno dei grandi giorni della mia vita. Me ne rendo conto con una previsione amara e ironica, e con il privilegio intellettuale della certezza”. La sua riflessione è una buona ragione per portare particolare rispetto ai contabili, costretti, loro malgrado, a ricordarci, con Keynes, che “noi dobbiamo restare poveri perché essere ricchi non rende. Noi dobbiamo vivere in tuguri, non perché non possiamo costruire dei palazzi, ma perché non ce li possiamo permettere”.

Due contabili per eccellenza, Perotti e Cottarelli, quasi quotidianamente analizzano le roboanti promesse dei candidati di questa deprimente campagna elettorale, con il fine di richiamarci a seguire la loro presunta razionalità. I due inquieti ragionieri a turno ci informano che le promesse di Renzi hanno bisogno di almeno 50 miliardi di copertura, quelle di Di Maio arrivano a 100; di quelle di Berlusconi si sa solo che le coperture appartengono al campo dei numeri naturali e considerata ogni nuova marginale promessa, il loro fabbisogno tende all’infinito. E allora? Razionalmente, che fare? Dal lato dell’elettore, vista l’impossibilità a mantenere quelle promesse, viene meno la ragione del voto. Non per tutti, perché per alcuni le ragioni possono stare altrove. Questi ultimi, per via degli astenuti, decidono il risultato e i vincitori possono dire di aver ottenuto il 51%, omettendo che è il 51% del 20% dei votanti.

L’alternativa, dal lato dell’offerta, cioè da parte dei partiti, è di ridimensionare le promesse, fino a garantirne la copertura. Le promesse riguarderebbero solo e solamente la riduzione delle spese e salvo continuare a credere nell’austerità espansiva, solo il contabile sarà soddisfatto, non rientrando nei suoi mastri la sostenibilità sociale. Tra l’altro, promettere riduzione di spese sociali non appare un buon viatico per chi vorrebbe vincere le elezioni. Resta allora, per soddisfare il contabile, non promettere nulla che abbia un costo. Solo riforme ad apparente costo zero, tipo: si sarà liberi di decidere in che lingua insegnare; scegliere l’età, compresa tra 0 e 80, in cui vaccinarsi, farsi chiamare dai call center solo sul fisso o solo sul cellulare, ecc.

Il contabile nasconde la sua inquietudine, appare triste perché non è suo compito entrare nel merito politico delle decisioni. Egli informa solo se contabilmente la cosa si può fare o no, salvo che non intenda per scelta politica appunto la mera fattibilità o meno della promessa elettorale. E’ una situazione esistenziale non felice, perché solo la realtà presente è per definizione fattibile, la futura è incerta e quindi lo status quo è l’unico possibile. Dietro la maschera del contabile si nasconde dunque uno spirito conservatore.

Ma perché, si chiede il contabile, consentire che si illudano gli elettori con promesse che non possono essere mantenute? Perché il politico può legittimamente rispondere che la sua è una promessa che vale se e quando sussisteranno le condizioni. Il politico non può ragionare come il contabile, ovvero coeteris paribus, a bocce ferme. Il politico, tutti i politici, deve poter credere che può cambiare le condizioni, anche se non individua una tecnica precisa per farlo. D’altro canto, a dispetto del contabile, la storia è piena di scelte politiche realizzate senza copertura (esempi recenti italiani riguardanti aspetti fiscali sono citati nell’articolo di Liberati, Crespi e Scialà, l’illusione della progressività, vb, 15 febbraio u.s.). Allora ha senso che l’economista prenda il posto del contabile e aiuti, pur con i suoi limiti e la necessaria modestia, a descrivere il significato politico della scelta, fattibile o meno che sia.

Per chiarire, prendiamo in considerazione una delle promesse più vendute e dal contabile stimata non fattibile per via delle perdite di gettito che genererebbe per lo Stato: la progressività per deduzione con aliquota fissa (Flat tax per i non addetti ai lavori). La domanda da porci potrebbe essere: dato l’obiettivo di voler ridurre la pressione fiscale, in particolare dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, perché scegliere questa applicazione tecnica e non invece più semplicemente ridurre le aliquote nell’attuale sistema di progressività per scaglioni (con deduzioni e detrazioni)? Stante l’obiettivo generale, anche in questo caso occorrerebbe ridurre le aliquote e quindi generare perdite di gettito e dunque il contabile risponderebbe che neanche questa eventuale promessa andrebbe bene; ancora una volta, nulla è fattibile salvo il presente.

Ha invece senso politico ragionare sul perché della tecnica scelta. E’ sufficiente ipotizzare parità di gettito (che vuole anche dire parità di riduzione del gettito in conseguenza della riduzione delle aliquote) e confrontare l’andamento delle aliquote effettive nella progressività per scaglioni e nella flat tax. Di seguito, svolgiamo un semplice esercizio nel quale ipotizziamo una no tax area pari a 10000 (euro, talleri, moneta fiscale, bitcoin, insomma la moneta che si preferisce) e senza riferimento agli effettivi scaglioni con relative aliquote e anche la flat tax è fissata con una aliquota nominale unica che garantisce il medesimo gettito. Bene, il risultato dell’andamento della progressività nei due casi appare evidente, senza bisogno di richiamarsi a Reagan o alla Thatcher per intuirlo: basta osservare il seguente grafico.

Se si vuole, possiamo anche immaginare veritiera l’assunzione teologica enunciata dal politico consistente nell’effetto di maggior reddito prodotto in conseguenza della riduzione delle aliquote e quindi il gettito dopo la manovra essere uguale, se non superiore a quello di prima della manovra stessa.

Sempre con riferimento al grafico, è agevole constatare che con la progressività per scaglioni si avvantaggiano i redditi bassi, mentre il contrario accade con la flat tax. Per agevolare tutti occorrerebbe violare la parità di gettito, ma è una assunzione priva di logica nella fase del confronto tra le due tecniche. Per essere meno iniqui, occorrerebbe violare quella assunzione e fare in modo che tutta la curva della flat tax giaccia al di sotto di quella che indica l’andamento delle aliquote della progressività per scaglioni. Occorrerebbe quindi stabilire deduzioni diverse in funzione del reddito e allora l’obiettivo della semplificazione (altro elemento richiamato dai politici tifosi della flat tax) diverrebbe alquanto complesso da rispettare. Riguardo l’evasione, facendo qui finta che la probabilità di essere scoperto, la necessità di una amministrazione finanziaria efficiente, non conti nulla sulla decisione su quanto dichiarare, ma che conti solo l’entità dell’aliquota, nel passaggio da scaglioni a flat tax, sempre a parità di gettito, troveranno meno convenienza ad evadere coloro che dichiarano redditi alti, mentre il contrario avverrà per i redditi medio bassi. Per i fautori della flat tax, la risposta è nel ridurre le aliquote anche verso il basso, con la speranza che ciò induca a maggior produzione di reddito, come ci si attende anche per i contribuenti che dichiarano redditi alti. Se non dovesse accadere, pazienza, allora si riduce la spesa pubblica, quella sociale perché meno lobbistica e più diffusa.

A questa nostra semplice descrizione si possono inserire tutti gli orpelli barocchi che si desiderano, ma questa è la sostanza base della flat tax: una redistribuzione del carico fiscale a favore dei redditi più alti. Una evidente politica fiscale liberista che non aiuta i precari, il ceto medio e non lotta l’evasione, anzi incoraggia quella di entità unitaria minore e diffusa. Dopo le elezioni si può non toccar nulla perché il contabile ci ricorda che non c’è copertura. Ma è un’altra storia che riguarda l’aritmetica delle scelte politiche, non l’economia politica.

Amedeo Di Maio e Ugo Marani

16/2/2018 da Micro Mega online

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