25 anni dal Testo Unico sull’immigrazione. Quando la fine ebbe inizio
Il 25 luglio del 1998, 25 anni fa, l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, (c’era il primo governo Prodi) emanava il Testo Unico sull’Immigrazione, (da ora T.U.), che regolava e in gran parte regola ancora, l’ingresso e il soggiorno dei cittadini non comunitari. La quasi totalità del testo si basava sulla legge 40/1998, più nota come Turco Napolitano, dai nomi degli allora ministri agli Affari Sociali e all’Interno. Partendo dal fatto che questo testo non è stato mai abrogato ma soltanto, negli anni, sottoposto a modifiche sempre più restrittive, si pensi agli emendamenti che hanno dato vita alla cd Bossi Fini del 2002, che oggi tanti vorrebbero superare, alla ridda di pacchetti sicurezza, decreti, circolari, modifiche di ogni genere, proposte tanto da governi di centro destra che di centro sinistra o “tecnici”, va fatta una riflessione seria su questo anniversario da non festeggiare. Chiaro che, pensando ai decreti divenuti legge di Maroni, Minniti, Salvini e Piantedosi – qualcuno lo dimentichiamo certamente – ad una analisi superficiale il ritorno alla legge originaria potrebbe sembrare una rivoluzione progressista, un ritorno di civiltà.
Per giungere a quella legge allora, ci fu un dibattito molto profondo e partecipato nella società italiana meno incattivita di quella attuale. Soprattutto dal mondo dei movimenti antirazzisti, dei sindacati, dell’associazionismo e del terzo settore, giungeva l’esigenza di guardare ai processi migratori in atto come ad un fatto sociale di ampio respiro che necessitava di risposte non emergenziali. Una legge che offrisse opportunità, che favorisse quella che già allora veniva chiamata “integrazione”, termine quantomai ambiguo, che si inserisse in maniera attiva in un contesto europeo dove l’allargamento dell’area Schengen di libera circolazione, già imponeva limitazioni in base ai titoli di viaggio e ai passaporti di chi voleva circolare. Era il periodo in cui già alcune avanguardie intellettuali criticavano apertamente i modelli perseguiti negli altri paesi di più antica immigrazione e con un passato coloniale più lungo come Francia e Gran Bretagna. Si diceva apertamente che né i tentativi assimilazionisti francesi, né il differenzialismo che portava chi arrivava da altri Paesi a costruire propri spazi nelle città anglosassoni, in cui le comunità nazionali erano separate, potevano costituire una soluzione. I fatti hanno dato ragione a questi pochi e poche intellettuali. C’era allora, in paesi come l’Italia, la possibilità di realizzare forme di convivenza in cui lentamente le barriere si potevano abbassare, in cui si potesse immaginare una modifica sociale con minori attriti e migliore capacità di contaminazione reciproca.
Per tante ragioni ciò non fu possibile. Intanto perché la politica non riuscì ad essere protagonista reale di quanto stava mutando nel Paese. Con poche preziose eccezioni, prevalse la logica per cui il tema “immigrazione” era scomodo, andava preso con le pinze e non poteva essere al centro di un dibattito politico in prossimità delle scadenze elettorali. Già allora c’era una destra in cui la xenofobia forse non era sdoganata come oggi ma si presentava e una sinistra inadeguata a confrontarsi su quel terreno. Già da allora il termine che entrò nel parlare comune fu “sicurezza” e chi arrivava, parlava una lingua diversa, aveva tratti somatici non corrispondenti a quelli di una inesistente “identità italiana”, veniva percepito (altra parola chiave) con diffidenza e a volte con sospetto. Erano – e sono ancora oggi – gli immigrati a mettere a repentaglio la nostra sicurezza e diveniva urgente, anche per i sedicenti progressisti, trovare gli strumenti per garantire tale diritto, ovviamente con maggior tatto. Questa vera e propria giustificazione ideologica con cui sostenere normative che considereremmo irricevibili per qualsiasi connazionale, di fatto però era frutto di un altro elemento sottaciuto. Non solo in Italia ma in tutto il mondo, le leggi sull’immigrazione sono innanzitutto leggi per regolare una parte del mercato del lavoro. Si badi bene, qui non si crede a fantasmi del tipo “immigrati = esercito industriale di riserva”, affermazione spesso rosso-bruna priva di fondamento e di riflessione sulla reale composizione del mondo del lavoro. Ma già in quegli anni servivano braccia, da sfruttare, in un contesto in cui gran parte delle lavoratrici e dei lavoratori autoctoni erano divenuti potenziale esercito industriale di riserva. La frantumazione dei cicli produttivi, le nuove modalità di organizzazione del lavoro, avevano abbondantemente dissolto la composizione di classe da anni Settanta. In un contesto di precarizzazione totale – sempre il centro sinistra aveva già approvato il “pacchetto Treu” – avere a disposizione grandi quantità di manodopera, da poter ricattare con lo strumento del permesso di soggiorno, permetteva unicamente di aumentare i profitti e di rendere ancora più gerarchica la condizione del lavoro subordinato. I cambiamenti introdotti con le correzioni imposte 4 anni dopo dalla “Bossi Fini”, che introducevano il “contratto di soggiorno”, ovvero puoi stare in Italia solo se hai un contratto con un privato, hanno costituito unicamente l’istituzionalizzazione di tale condizione. La promessa dello “sponsor”, presente invece nel testo originario, permetteva soltanto a singoli o aziende di sponsorizzare l’ingresso in Italia garantendo un contratto. C’era sicuramente una migliore e più facile rapporto fra domanda e offerta nel mercato del lavoro rispetto al proibizionismo delle modifiche successivamente introdotte, ma di fatto il legame di subalternità era già in essere. Migrare e scegliersi un proprio percorso di vita doveva essere una perenne corsa ad ostacoli.
La legge 40 fu frutto di lunga mediazione e di compromessi, vennero anche garantiti 250 mila permessi di soggiorno in cambio dell’accettazione dei primi centri di detenzione per migranti da rimpatriare che allora vennero chiamati Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (Cpta), nel 2009, con meno ipocrisia, Centri di identificazione ed Espulsione (CIE), nel 2017, Centri Permanenti per i Rimpatri (Cpr), denominazione valida ancora oggi. Si introduceva insomma, col pretesto del rispetto dell’area Schengen, la realizzazione di luoghi in cui si veniva privati della libertà personale senza aver commesso alcun reato penalmente perseguibile.
Se durante la votazione dei singoli articoli alcuni esponenti di Rifondazione Comunista manifestarono il proprio dissenso – ad esempio sui Cpta – alla votazione finale tutta la componente progressista votò l’approvazione della legge. Già da allora era prevalsa la linea del ministro Giorgio Napolitano “coniugare accoglienza e sicurezza”, che si tradusse nel destinare risorse soprattutto alle voci di spesa per il secondo termine. L’immigrazione era stata istituzionalizzata come problema di ordine pubblico.
Allora, ma accadeva da decenni con scarsi interventi legislativi – ad eccezione della cd Legge Martelli del 1990 – chi arrivava in Italia, entrava soprattutto con visto turistico e poi rimaneva oltre i 90 giorni previsti per poi cercare di regolarizzare negli anni la propria presenza attraverso “sanatorie” o decreti flussi. Gli spostamenti dovuti a criticità politiche, quella albanese in due fasi – primi anni Novanta e poi 1997/98 – e quella kosovara, dovuta al conflitto nell’ex Jugoslavia, divennero solo parzialmente elemento propulsivo ad una legislazione onnicomprensiva. Si veniva in Italia soprattutto perché sembrava offrire migliori condizioni di lavoro, perché c’erano nicchie economiche sguarnite (agricoltura, lavoro di cura, logistica ecc…) in cui servivano braccia sia perché si trattava di lavori usuranti che gli autoctoni non volevano più fare, sia perché per farli c’era l’esigenza di manodopera giovane, già scarsa in un Paese ormai vecchio. Gli elementi introdotti dalla Bossi Fini, si tradussero nel creare maggiori difficoltà di incontro fra domanda e offerta di lavoro regolare, una manna per l’economia sommersa al punto da far definire il testo aggiornato una “fabbrica di irregolari” o, come già si cominciava a dire, istillando la paura “di clandestini”.
Nei 20 anni successivi molte cose sono profondamente cambiate. L’Italia, dalla crisi del 2008 da cui non ci si è mai realmente ripresi, in poi, è divenuto sempre più paese di transito e non di immigrazione. Prima con le guerre del Golfo e con l’invasione in Afghanistan, poi con le “Primavere Arabe”, a seguire con i tanti conflitti esplosi in buona parte del continente africano, in Medio Oriente (cfr Siria), con i danni causati dal cambiamento climatico, le ragioni strutturali delle migrazioni sono profondamente cambiate come sono cambiate le rotte migratorie. La stessa Italia sarebbe da anni in saldo negativo, nel rapporto fra persone che se ne vanno e persone che arrivano – tanti e non solo giovani coloro che cercano fortuna all’estero – se non fosse per i pochi ricongiungimenti familiari di persone stabilmente residenti e per l’arrivo di richiedenti asilo o di protezione internazionale. In un quadro del genere tanto l’UE, quanto i singoli Stati membri, non hanno avanzato risposte in grado di confrontarsi col futuro e con un fenomeno irreversibile. L’UE ha partorito la genialata del “regolamento Dublino”, che costringe chi arriva in un Paese a chiedere in questo protezione, facendone pagare le spese agli Stati dell’Europa Meridionale. Sempre l’UE ha tentato di costruire meccanismi di difesa dei confini europei, mediante muri – oltre 1700 km tanto interni quanto esterni – agenzie di controllo delle frontiere come Frontex, missioni di polizia per fermare ogni arrivo, respingimenti collettivi illegali, accordi, stipulati con i singoli Stati da cui transitano profughi e le cui condizioni di democrazia sono spesso inesistenti, come Libia, Turchia, Egitto e oggi Tunisia, per l’esternalizzazione delle frontiere.
In Italia, insieme ad un accanimento contro richiedenti asilo e persone che reclamavano forme di protezione, c’è da anni in piedi una stretta di stampo proibizionista, affinché persino le esigenze dell’economia finiscano con l’essere subordinate a quelle di “sicurezza”. Ottenere l’asilo, la protezione, il permesso di soggiorno, la sua conversione in permesso di lavoro e poi in carta valida a tempo indeterminato, per non parlare della cittadinanza, sono percorsi, che ogni giorno affrontano decine di migliaia di persone e che rendono il nostro paese il regno di Kafka.
Di fatto si continua a legiferare, a produrre decreti da propaganda, immaginando soluzioni impossibili, dai rimpatri di tutti i “clandestini”, agli ingressi funzionali unicamente a specifici comparti economici, alla selezione degli aventi diritto alla protezione, considerando, come 25 anni fa le persone al pari di oggetti o meglio ancora di merce. Intanto il pensiero comune sembra essersi abituato al veder presenti nel Paese, uomini e donne con meno diritti, quasi come fosse un fatto naturale – questo è vero razzismo -, paura, discriminazione, sfruttamento, forme più o meno larvate di suprematismo, sembrano essere divenute la cifra del XXI secolo non solo in Italia. Il successo in gran parte d’Europa delle forze marcatamente neofasciste, nazionaliste e antimmigrazione, anche in Paesi che sembravano immuni da tale contagio, denota come questo non sia una caratteristica unicamente nostrana. Sta il fatto che, in condizioni diverse e con storie specifiche, quella che chiamiamo giustamente “fortezza Europa” si è costruita grazie a legislazioni europee e nazionali maturate per non contrastare una cultura di questo tipo. Razzismo istituzionale e popolare si sono fuse in una comune guerra contro gli ultimi, (altro che guerra fra poveri), in una gerarchizzazione piramidale delle società, nella narrazione tossica e falsa secondo cui viviamo in paesi in cui la coperta è troppo corta e per alcune/i non c’è spazio. Il celeberrimo “prima gli italiani”, o i tedeschi, i fiamminghi, i finlandesi è divenuto oggi egemone al punto da espandersi anche nei paesi rivieraschi del Mediterraneo in cui cresce il razzismo nei confronti di chi proviene dall’Africa Sub Sahariana.
E l’Europa, con l’Italia in prima fila, firma accordi con i peggiori regimi per rimpatriare chi è indesiderato (non utile all’economia), mostra di non avere neanche una strategia capace di affrontare le infinite problematiche internazionali alle cui origini ci sono le migrazioni volute o forzate, ma procede reiterando modelli già sperimentati e già falliti: Schengen, il Processo di Khartoum, quello di Malta e, oggi, in salsa meloniana, quello di “Roma”, lanciato con la conferenza del 23 luglio su “migrazioni e sviluppo” di cui parliamo in altro articolo, i roboanti “Migration act” del 2015, e l’ancora inevaso New pact on migration and asylum del 2020, sono lì a dimostrare su carta, il fallimento totale di decenni di politiche comunitarie. Così come i venticinque anni del T.U. sull’immigrazione in Italia, sono la conferma di una debacle strutturale che ha prodotto danni sia a chi arriva sia a chi del Bel Paese ha il privilegio di essere “cittadina/o”.
E non solo su carta, la necessità di un cambiamento radicale che rimetta in discussione le fondamenta dell’impianto legislativo in materia si impone in assenza di concreta proposta politica. Si dovrebbe partire almeno da due assi portanti: il lavoro e il soccorso. Il potere d’acquisto dei salari di chi lavora in Italia è caduto, dagli anni Novanta del 3%, quello di chi è di origine straniera è mediamente inferiore del 30%. Persino il lavoro al nero, quello che sconfina nel neoschiavismo, oggi è pagato meno di 10 anni fa e alcuni contratti collettivi che riguardano nicchie economiche composte soprattutto da lavoratrici e lavoratori stranieri, impongono salari da fame. Una cartina di tornasole di quella che è la condizione di chi svolge lavoro subordinato in questo Paese. E, da ultimo, appare quel gigante del lutto perpetuo che è divenuto il Mar Mediterraneo. Decine di migliaia di vite perse, cadaveri che quotidianamente si accumulano sui fondali se non nei deserti dei paesi limitrofi o nel gelo della rotta balcanica. Le regole che permettono l’accesso in Europa devono essere cambiate concretamente e tali modifiche devono divenire anche culturalmente necessarie, per la politica come per l’opinione pubblica europea. O accade questo o il fortino con mura che hanno le fondamenta sul nulla, in cui le crepe affiorano ovunque, dalle enclave spagnole in Marocco fino ai fili spinati fra Bielorussia e Polonia, è destinato miseramente a crollare. Non per l’arrivo dei barbari o per una inesistente “sostituzione etnica” ma per un estinzione dell’Europa stessa.
Stefano Galieni
Resp. immigrazione PRC
26/7/2023 https://transform-italia.it
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