Il lavoro non è finito, il futuro è nel conflitto
Fare conflitto e negoziare. È il messaggio che Sergio Bologna lancia alle giovani generazioni, e non solo, nel libro Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019 (Asterios, pp. 320, euro 25). «Da qui i nostri discorsi debbono partire – scrive – ma che fatica doversi sbarazzare di idiozie, luoghi comuni, elucubrazioni accademiche, discussioni inutili, falsi obbiettivi… prima di raggiungere finalmente il punto di partenza!».
IL CONFLITTO è, in primo luogo, contro l’ideologia della «fine del lavoro», un’immagine battezzata nel lontano 1995 da Jeremy Rifkin che ha trovato oggi un inveramento nella rivoluzione digitale considerata il prodotto di una magia tecnologica e non del mercato. È la metafora del nostro tempo: le donne e gli uomini che svolgono un lavoro digitale sono considerati «servizi umani», appendici organiche di un algoritmo, funzioni assoggettate all’autorità del capitalismo delle piattaforme. Ai prodotti di questo capitale è attribuita una vita autonoma, mentre la forza lavoro che permette di renderli intelligenti è considerata l’oggetto dell’intelligenza artificiale. Questo rovesciamento è dettato dal feticismo dell’automazione e ha ispirato la profezia della sostituzione del lavoro umano con i robot. È nata così l’idea secondo la quale l’innovazione tecnologica è la principale causa della scomparsa dei posti di lavoro e dell’aumento delle disuguaglianze.
Bologna ispira un altro modello interpretativo secondo il quale è in atto un processo di sostituzione del lavoro con quello precario determinato dall’uso politico della tecnologia e dell’organizzazione dell’impresa. Questa idea è confermata dal fatto che, anche grazie alla diffusione molecolare delle tecnologie proprietarie, lavoriamo sempre di più, sempre peggio, con paghe miserabili, o addirittura gratuitamente, mentre dall’altra parte crescono ricchezze inimmaginabili.
LO STRABISMO del discorso sulla fine del lavoro è l’esito di un’operazione politica e culturale volta a neutralizzare il conflitto possibile. Attenzione, si dice, se vi mettete in conflitto sul luogo di lavoro, rischiate di accelerare la vostra fine che, comunque, sarà inevitabile. Se è inevitabile la scomparsa del lavoro, e non lo è affatto, non ha senso nemmeno contrastare chi impone diseguaglianze inaccettabili fino a poco tempo fa. Questa rappresentazione è un doppio vincolo creato per indurre alla disperazione e all’inazione. È usata per cancellare le rivendicazioni minime sui diritti. Si ritiene che siano inutili perché non portano a un miglioramento, ma addirittura alla perdita del lavoro. Alla fine non basta sperare in un giudice. Un giudice applica le leggi che tutelano i dominanti. Tutt’al più garantisce un risarcimento, tra l’altro sempre minore.
UN CAMBIO di mentalità può derivare da una constatazione materiale. «Finché esisterà un solo uomo sulla terra la cui esistenza dipende da una retribuzione ottenuta in cambio di una sua energia vitale prestata a terzi – scrive Bologna – il termine “lavoro” avrà la sua piena valenza». Il rapporto ricorsivo tra conflitto e negoziazione è necessario al miglioramento della vita dei lavoratori, ma anche all’evoluzione dell’impresa e dello Stato. La storia recente ha dimostrato che solo a seguito di un conflitto la macchina statale si muove.
Anche quando manca, il conflitto esercita un ruolo centrale nella società. L’autoritarismo xenofobo montante è per Bologna la conseguenza dell’impossibilità, o incapacità, «di negoziare le proprie condizioni di lavoro e di Welfare o di migliorare la propria condizione esistenziale». Questo ripiegamento non produce alcun risultato concreto e stimola «conflitti immaginari» che attaccano vigliaccamente gli inermi. Si tratta invece di ripensare, e organizzare, un conflitto «reale che comporta notevoli rischi».
Conflitto, di preciso, su cosa? Sull’esercizio autonomo della propria esistenza. Ogni ragionamento sul lavoro non può che partire dalle condizioni di vita in cui si trova la forza lavoro. Il lavoro è sempre una merce in una società capitalistica ed è svolto da chi è costretto, per sopravvivere, a lavorare per un altro. Finché non sarà superata questa ingiustizia il lavoro non finirà, e nemmeno le diseguaglianze che lo producono.
Nasce così l’appello di Bologna alla virtù etica e politica del «coraggio». Non è un esercizio volontaristico. Nulla è più effimero di un gesto isolato in una società dove l’individualismo estremo e la concorrenza al ribasso ossessionano chi sopravvive nell’isolamento e non vede alternative al peggio.
DAVANTI a questo muro non c’è alternativa: è necessario uscire da se stessi, e organizzarsi. Le diseguaglianze non possono essere lenite con i «pannicelli caldi della carità cristiana o del volontariato laico». Anche nelle condizioni più difficili, e ce ne sono state di peggiori, resta un modo per trovare un’utilità comune nella solidarietà. Lì dove è massimo il pericolo c’è chi si trova nella tua stessa situazione.
Il problema è però quello di come organizzare il conflitto in una forza lavoro che ha perso il senso di appartenenza alla classe. E dunque come ricostruire una condizione politica negata dalla frammentazione e dall’individualizzazione.
Nell’inchiesta sulle nuove forme organizzative Bologna ha individuato uno strumento importante per affrontare concretamente la contraddizione. Il conflitto oggi è praticabile indipendentemente dallo statuto del lavoratore, sia esso dipendente, autonomo o precario. La critica è al corporativismo del sindacalismo dei dipendenti, all’ideologia del «professionalismo» dei lavoratori autonomi e all’idea che i «precari» da soli possano rappresentare una «classe». L’obiettivo è superare le frontiere, cominciando da quelle in cui un soggetto si rinchiude pensando di trovare un’identità, mentre invece riproduce la propria alienazione.
QUESTO NON SIGNIFICA rinunciare alle rivendicazioni sulle «identità professionali» o «di status» e al rispetto delle tutele e dei diritti del contratto o della partita Iva. In più, lì dove esiste un rapporto di lavoro, di qualunque genere, è necessario affrontare il problema di fondo: il salario, il compenso, il reddito: «una grave questione sempre messa in secondo piano rispetto a quella della durata e della forma del contratto», sostiene Bologna. In questa prospettiva, nel libro, si parla del salario minimo orario. È un’idea annunciata in questa legislatura, ma non basta una legge calata dall’alto. Le migliori intenzioni dei governanti, ammesso che lo siano, sono insufficienti senza una negoziazione e un conflitto sulle condizioni generali di vita e sulla retribuzione.
Questo volume va letto anche per le pagine bellissime scritte su Trieste, la città dov’è nato l’autore. La sua personalità inquieta e poliedrica si è formata in una zona di frontiera, fustigata da opposti nazionalismi, ma attraversata da culture che hanno mescolato le lingue, maturando le passioni per la scienza, la ricerca e la letteratura insieme alla spinta alla sperimentazione politica e sociale. Un intreccio duraturo che rende il «neo-nazionalismo attuale» obsoleto agli occhi di Sergio Bologna. L’origine della contraddizione resta nelle condizioni di vita e di lavoro, senza distinzione di nazionalità. «Il mio operaismo – scrive – era intriso di elementi anarchici, libertari, consiliaristi, non leninisti. Preferivo il libero pensiero, diffidavo del dogma. mi sentivo più vicino alla spiritualità cristiana che all’ottuso settarismo politico. Volevo la liberazione dal regime capitalista e dal regime comunista, volevo entrare in una nuova era, che poi sarebbe stata del post-fordismo e lì trovare nuove, originali forme di emancipazione, di liberazione, inventate da noi, non riprese pappagallescamente dalle formule della terza Internazionale». Il tempo è passato, nuove contraddizioni sono nate, il respiro della libertà ricomincia ogni giorno.
Roberto Ciccarelli
12/12/2019 ilmanifesto.it
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