Licenza di uccidere

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L’aumento continuo degli omicidi sul lavoro registratisi in Italia negli ultimi dieci anni, nonostante la
diminuzione della produzione industriale e del numero di ore lavorate, è il segnale più evidente
dell’aumento dello sfruttamento, della guerra vincente scatenata dal Capitale contro il Lavoro, contro le
lavoratrici e i lavoratori. L’effetto più drammatico della precarizzazione.

E’ la punta di un iceberg che vede alla base aumentare il numero di infortuni gravi, di infortuni meno
gravi, di aumento delle malattie e patologie professionali, di disturbi e disagi psichici, di diminuzione
dell’aspettativa di vita soprattutto per chi svolge mansioni usuranti e gravose. Anche quando non ti
ammazza lo sfruttamento ti indebolisce. Ti ferisce dentro e fuori.

Di fronte a questa strage occorre per prima cosa individuare tutti gli strumenti legislativi, normativi,
giuridici, politici, sindacali, formativi che consentano di aumentare la sicurezza nei luoghi di lavoro. A
supporto dell’impegno di tanti lavoratori che quotidianamente devono lottare per far rispettare le norme
della sicurezza, anche quando vanno contro le direttive e le disposizioni aziendali, anche quando
subiscono pressioni, minacce, ricatti. Anche quando si vedono sanzionati e i giudici non riconoscono le
loro ragioni, non facendo rispettare nemmeno il principio fondamentale della gerarchia delle fonti: i
dispositivi aziendali prioritari sulle leggi dello Stato. Il profitto sulla giustizia. A supporto delle Casse di
Resistenza e solidarietà organizzate per pagare le spese legali ai lavoratori sanzionati e licenziati. E per
organizzare gli scioperi per la sicurezza come quello organizzato dagli rls dei ferrovieri senza rispettare
le norme della commissione antisciopero dopo il disastro di Crevalcore che costrinse il Gruppo Fs a
investire su sistemi di controllo automatici più moderni e sicuri.

Dopo la morte di Luana il silenzio che copriva i dati e i racconti delle morti sul lavoro è stato parzialmente
squarciato. Il meritorio lavoro di quanti in questi anni hanno continuato a informare, costituendo
osservatori nazionali e locali, coordinamenti di Rls, iniziative politiche, dibattiti, raccolta firme, inchieste,
allestendo mostre, eventi, spettacoli per sensibilizzare l’opinione pubblica ha visto un parziale
riconoscimento. Negli ultimi mesi giornali e televisioni almeno danno le notizie. Ma nulla cambia. Era già
successo dieci anni fa con la strage alla Tyssen krupp. Dopo l’iniziale commozione abbiamo dovuto
assistere al tentativo di insabbiare e coprire le responsabilità dell’azienda tedesca. Inoltre con una
pandemia che è arrivata a uccidere anche mille persone al giorno, molte delle quali si sarebbero potute
evitare se non si fossero accettati i ricatti della Confindustria e delle multinazionali farmaceutiche, anche
i 4 morti al giorno sul lavoro diventano un numero che non fa più scandalo. Un po’ come succede con le
guerre che rendono tutto accettabile e sterilizzano ogni conflitto e ribellione. O con i licenziamenti politici
quando ci sono licenziamenti di massa per ristrutturazioni o delocalizzazioni. In questi giorni persino la
morte di Lorenzo, un ragazzo di 18 anni che invece di stare a scuola ha trovato la morte in una fabbrica,
sarebbe stata derubricata a spiacevole fatalità, se non ci fosse stata la coraggiosa, combattiva e
intelligente protesta degli studenti che sono tornati a chiedere la fine della vergognosa alternanza scuola
lavoro. Il governo Draghi, cioè Pd, Lega, Forza Italia, 5 stelle, Leu, ha ascoltato la loro ferma richiesta,
ne ha ben compreso la forza e la pericolosità e quindi ha risposto con i manganelli sulle teste pensanti e
in formazione di ragazzi di 15 anni. La ferocia dei padroni che ne colpiscono uno per terrorizzarne mille.

L’aumento dello sfruttamento che è la causa principale dei morti sul lavoro si può valutare anche sul
piano internazionale, con un tendenziale peggioramento delle condizioni di lavoro, nonostante lo
sviluppo tecnologico e scientifico avrebbe consentito un deciso miglioramento. Le migliaia di morti sul
lavoro per la costruzione degli stadi nei prossimi mondiali di calcio ne sono la rappresentazione più
eloquente. Di pari passo c’è stato un arretramento nella partecipazione e nel ruolo politico delle masse,
con una conseguente riduzione dello stato sociale e dei diritti sociali, attraverso i processi di
privatizzazione. L’ aumento dei beni di consumo, spesso superflui o addirittura nocivi, a disposizione
usati come contropartita parziale con merci di durata inferiore e qualità scadente e oltretutto solo
provvisoria vista l’insostenibilità ecologica di un modello ultra consumistico con una popolazione che
potrebbe arrivare tra pochi decenni a 10 miliardi.

Ma il caso italiano presenta caratteristiche peculiari e più profonde, un arretramento di proporzioni
inaudite. Già dieci anni fa il Guardian con un editoriale in prima pagina si chiedeva com’era possibile un
arretramento così vistoso e profondo nella condizione della classe lavoratrice italiana, che nella storia si
è determinato solo in seguito a guerre. E che, a differenza delle guerre ha visto un aumento inverosimile
delle diseguaglianze. E si domandava giustamente cosa fosse successo ai nostri sindacati.

Il crollo del muro di Berlino, con lo scioglimento del Pci e la fine dell’Unione Sovietica, è cascato sulle
spalle della nostra classe operaia con l’abolizione della scala mobile, il meccanismo di adeguamento
automatico dei salari all’inflazione che impediva ai padroni di usare l’aumento dei prezzi per abbassare i
salari reali dei lavoratori. Lo strumento con il quale i lavoratori difendevano il potere d’acquisto dalla
voracità della peggiore e parassitaria borghesia europea, e potevano quindi concentrare le forze del
movimento sindacale sul complesso della loro condizione, turni, orari, sicurezza, salute, inquadramenti
professionali e scatti di carriera, contratto collettivo nazionale e quindi possibilità reale di una
contrattazione aziendale articolata e sul piano generale pensioni, sanità, scuola, trasporti pubblici,
politiche abitative, in sostanza i diritti sanciti dalla nostra Costituzione. Erano diritti sempre da difendere,
da realizzare attraverso la partecipazione democratica, una delle più avanzate al mondo, spesso rimanevano solo sulla carta, ma comunque hanno garantito la crescita culturale e civile di almeno due generazione di proletari Il padronato, con la servile complicità di quasi tutti i partiti, ha proceduto per trent’anni a erodere quelle conquiste. E con le leggi elettorali maggioritarie, le soglie di sbarramento, a indebolire la sinistra di classe. Attraverso il regionalismo secessionista e il principio di sussidarietà si sono finanziate scuole e sanità private, nel mentre venivano abbassate le tasse alle classi agiate e dominanti. Un gigantesco trasferimento di ricchezza di oltre il 10% dal lavoro alla rendita e ai profitti.

Con un andamento ciclico e continuo a ogni finanziaria, a ogni scadenza contrattuale toglievano un
pezzo indebolendo la condizione materiale, quasi dissanguando la forza del movimento operaio. La Cgil,
dopo la firma di Trentin sulla scala mobile in spregio del mandato della sua organizzazione, ha accettato
prima le privatizzazioni, poi ha cercato di concertare subendo l’egemonia della Cisl, infine ha subito gli
attacchi inducendo tra i delegati, gli attivisti, gli iscritti rinuncia e rassegnazione, con scioperi a volte solo
simbolici, senza mettere in campo la forza ancora possente dell’organizzazione e del movimento
sindacale. Oppure mettendola solo quando ormai era troppo tardi. Fino ad accettare aumenti di orario,
ritmi, turnazioni sempre più pesanti e di partecipare e promuovere nei contratti i fondi pensioni e la sanità
integrativa. Quelle rare volte che ha messo in campo la forza anche da sola i lavoratori hanno
partecipato e i risultati sono stati positivi come sulla controriforma Dini (anche grazie al ruolo del Prc e
solo per la generazione che aveva conquistato la riforma pensionistica del 1969) e contro l’attacco
all’articolo 18 del governo Berlusconi. La Fiom con la svolta di Sabatini prima e la segreteria Rinaldini
poi, ha reagito per circa un decennio riuscendo anche a contrattaccare sia alla Fiat di Melfi sia col
referendum proposto da Rifondazione sull’estensione dell’articolo 18. Questo nonostante le crisi
industriali, agevolate dalla subalternità dei governi alle politiche europee che minavano la struttura
produttiva nazionale, indebolissero il peso contrattuale dei metalmeccanici. Con la scomparsa dei
comunisti nel Parlamento e la conseguente offensiva padronale del marchionismo la Fiom ha saputo
mantenere specialmente nella vicenda di Pomigliano viva la lotta e la dignità, ma alla fina ha ceduto e ha
concentrato le forze nella difesa dell’occupazione, contro la chiusura delle fabbriche.

I sindacati di base e autorganizzati sono stati sicuramente efficaci nel denunciare la situazione, a
organizzare in alcune realtà mobilitazioni vincenti e anche a frenare l’attacco, ma non hanno mai
costruito un radicamento sufficiente per ribaltare la situazione. Usb sta tentando di fare un salto di
qualità.

Oggi per risalire la china di un terreno sempre più impervio e scivoloso, con i processi di automazione
che avanzano, occorrerà pazientemente, riconquistare progressivamente le posizioni perdute, non
lasciandosi paralizzare dalla paura dei rapporti di forza sfavorevoli. Le proposte contenute nel Piano del
Lavoro dal nostro partito, che non abbiamo sinora saputo mettere sufficientemente al centro del nostro
impegno politico, né articolare territorialmente, potrebbero costituire una buona a base di partenza.
Innanzitutto con una politica salariale che redistribuisca la ricchezza attraverso il salario minimo orario
indicizzato con una nuova scala mobile, con un reddito sociale e sussidio di disoccupazione come esiste
nel resto d’Europa, con una significativa riduzione d’orario a parità di salario, con investimenti pubblici
per una politica industriale e una legge che istituisca il lavoro minimo garantito per andare verso la piena
occupazione. Non sono obbiettivi irrealistici se sostenuti da campagne durature e da una politica di
intervento diretto del partito nei luoghi di lavoro e di rinnovato impegno sindacale.

Le nuove generazioni potrebbero essere non più disponibili ad accettare lavori scarsamente retribuiti e
come si comincia già a verificare i padroni potrebbero trovare difficoltà a trovare manodopera a buon
mercato visto il calo demografico che c’è stato in Italia negli ultimi vent’anni.

Inoltre Il livello immorale, immotivato, assurdo delle differenze retributive tra pochi ricchi e la massa della
popolazione o finisce con una redistribuzione significativa della ricchezza o con una caccia al ricco, o
con un bagno purificatore o in un bagno di sangue.

Ma fondamentale rimane riaprire una riforma morare e intellettuale, un impegno culturale tra le giovani
generazioni per valorizzare il lavoro, condizione indispensabile per avere una produzione di beni e
servizi di qualità, per migliorare la qualità della vita, per il bon vivir, per la civiltà. Un impegno volto a
ridare dignità alle persone che lavorano, a renderli non meri consumatori di prodotti di scarsa qualità e
bellezza, ma cittadini consapevoli dei propri diritti, attenti a limitare il consumo delle risorse, a valorizzare
le attività creatrici, a avere più tempo a propria disposizione per crescere e migliorarsi come ci ricorda
sempre il compagno Pepe Mujica.

Dentro questo processo di formazione e crescita culturale c’è sempre da inserire l’attenzione alla
sicurezza del lavoro. Qualsiasi attività umana, qualsiasi lavoro che trasforma le cose e le persone è
intrinsecamente pericoloso. Il lavoratore deve sempre far valere il diritto alla propria dignità e alla propria
integrità anche fisica. Come ci ha insegnato Marx, rimane comunque sempre lui il protagonista principale
della sua liberazione e quindi anche della sua sicurezza.

Giuseppe Carroccia

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