Scienza, sviluppo e orario di lavoro. Torniamo a parlarne
Sempre più spesso assistiamo increduli agli avanzamenti tecnologici. La scienza, la ricerca, lo studio ci consegnano strumenti ed oggetti destinati a rivoluzionare la produzione. Ultima, per quanto se ne sappia, la stampante 3D, capace di ricostruire con la massima fedeltà oggetti di ogni fatta e dimensione. Sicuramente una tale capacità innovativa sta garantendo, al mondo della produzione, strumenti sempre più sofisticati capaci di rendere l’apporto umano sempre più residuale. Nel 1799 Ned Ludd, un operaio tessile si scagliò, distruggendola, contro una delle prime macchine introdotte nella produzione dopo la prima rivoluzione industriale. Già allora si intravvedeva come l’introduzione e l’uso delle tecnologie, all’epoca senz’altro molto meno sofisticate delle attuali, avrebbero potuto produrre una diminuzione della necessità dell’apporto umano.
La questione dello sviluppo tecnologico non produsse allora, e non sta producendo oggi, un miglioramento diretto delle condizioni di vita del proletariato industriale, bensì una forte riduzione degli addetti ai processi produttivi, via via oggi sostituiti dai macchinari frutto dell’innovazione tecnologica, dalla robotica e dall’informatica. A questo si accompagnano, ai giorni nostri, i processi di delocalizzazione produttiva che hanno via via spostato la produzione intensiva e di filiera fuori dai paesi a capitalismo avanzato, dove il costo della mano d’opera è largamente più alto di quello dei paesi terzi e che hanno contribuito alla sovrapproduzione di merci a livello mondiale che è un altro fattore di squilibrio che stiamo pagando.
La disoccupazione di massa che sta interessando l’Italia, ma più in generale i paesi industrializzati, è in parte quindi figlia anche dell’innovazione tecnologica, oltre che dell’innalzamento dell’età pensionabile, delle delocalizzazioni e di alcuni altri fattori dovuti alla divisione internazionale del lavoro e quindi al ruolo di produttore di servizi che l’Unione Europea ci assegna.
Nei decenni passati la parola d’ordine della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è stata agitata e sostenuta da più parti come uno degli strumenti capaci di redistribuire il lavoro esistente, riducendo i margini di profitto delle imprese e spostandoli al fattore lavoro.
La questione è stata poi accantonata di fronte alle dure resistenze del padronato, alla totale insensibilità sindacale e da ultimo all’emergere di fattori quali la precarietà e l’introduzione delle nuove forme di sfruttamento, realizzate attraverso il profondo sconvolgimento della legislazione lavoristica che ha consentito forme di temporizzazione del lavoro che inevitabilmente hanno messo la questione in secondo piano. A chi lavora tre ore al giorno o diciotto ore a settimana, sentir parlare di riduzione dell’orario di lavoro fa venire quanto meno l’orticaria!
L’USB ha ricollocato la questione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario all’interno della propria piattaforma programmatica. E’ quello l’unico modo corretto di riproporre una questione di portata così rilevante e che da sempre suscita discussione e schieramenti pro e contro, collegandola cioè con un ventaglio di misure economiche e sociali che, se realizzate, rendono possibile sconfiggere resistenze padronali e sottovalutazioni sindacali anche su questa questione centrale. Non dobbiamo aver paura di proporre soluzioni alternative a quelle che la borghesia e il padronato hanno avuto la capacità di far vivere come le uniche realizzabili e possibili. Sta a noi riavviare e prospettare proposte che partano dalla nostra condizione materiale e dalle esigenze della classe e sostenerle con le lotte.
11/4/2016 www.usb.it
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