La nuova ideologia contro il lavoro
Che cos’è lavoro e cosa non lo è? Sarebbe interessante fare un censimento di quante volte nella giornata usiamo espressioni come sto lavorando, sto al lavoro, devo lavorare… Molte delle occasioni in cui io pronuncio una frase del genere a qualcuno non segnalano il fatto che mi devo dedicare a un’attività che è regolata da un contratto. Dico sto lavorando quando sono a scuola a insegnare ai ragazzi (contratto), quando sto scrivendo un pezzo per il mio blog (non contratto), quando sto leggendo un libro che forse mi servirà per aggiornarmi (contratto?). Lo stesso riguarda situazioni di lavoro meno definibili, tipo le casalinghe che fanno la spesa, chi fa ripetizioni a suo nipote, lo studente che sta facendo una ricerca di gruppo. L’autorappresentazione dei confini del lavoro è molto labile: è un insieme ovviamente molto più grande di ciò che è contrattualizzato, ma è un insieme che non coincide nemmeno con ciò che può portare reddito. Facciamo un esempio: quando devo spiegare il marxismo ai miei studenti a scuola, gli parlo di Facebook. Quanto vale Facebook in borsa? Mettiamo per approssimazione cento miliardi di dollari. Quanti iscritti ci sono su Facebook? Mettiamo per approssimazione un miliardo. Questo cosa vuol dire? Che ogni iscritto a Facebook produce di media un valore di cento dollari. Se – poniamo caso – metà degli iscritti a Facebook domani decidesse di migrare su un nuovo più strabiliante social network, ecco che di colpo, probabilmente, il valore di Facebook si dimezzerebbe. Questo vuol dire che il tempo che passiamo su Facebook, su Google, su Twitter, eccetera, è un tempo che produce reddito che non ci viene riconosciuto – è plusvalore dato dal nostro pluslavoro, per usare categorie un po’ antiche.
Chi volesse mettere mano a una nuova legislazione sul lavoro dovrebbe tenere conto di queste trasformazioni. Dovrebbe capire come redistribuire questo reddito, e come allargare il più possibile a tutte le forme di tutela che oggi non sono appannaggio di tutti. Malattia, maternità, aspettative, eccetera.
Non si può dire che il Jobs Act non si sia confrontato con questo paesaggio così mutato. Il punto è che invece di capire come tutelare quelle forme di lavoro più plastico e meno definibile attraverso delle chiare forme contrattuali, si è scelta la strada opposta: si è pensato di rendere più deboli le tutele che già esistevano – riducendo quello che finora abbiamo considerato lavoro a una specie di “attività”.
Se le riforme del lavoro, da Treu in poi, avevano provato con molti obbrobri concettuali e linguistici a venire incontro a una frammentazione delle forme di lavoro, creando dei mostri come i co.co.pro., il Jobs Act elimina l’articolo 18 e trasforma la possibilità di licenziamento in un inconveniente da gestire con un po’ di indennizzo. Di fatto sceglie di liberarsi di un senso di colpa, che almeno aveva mascherato la diminuzione dei diritti in una specie di tentativo rabberciato di difenderne il loro valore quantomeno formale.
Il Jobs Act no, Renzi e Poletti hanno sostenuto senza più pudore che la vecchia normativa era ideologia, e che il sol dell’avvenire che non avevamo voluto inseguire finora è invece sorto senza che ce ne accorgessimo, e si chiama flessibilità in uscita.
Con gli sgravi fiscali, la possibilità di licenziare senza giusta causa e la trovata dei voucher, è facile vedere come non si sia cambiato semplicemente l’aspetto legislativo del lavoro, ma si sia trasformato il contesto in cui si parla di lavoro. Il lavoro è una semplice prestazione – posso fruirne, poi posso smetterne di fruirne: la prospettiva di cui tengo conto non è mai quella del lavoratore, ma quella dell’azienda che si serve di questa prestazione.
Questa concezione che toglie al lavoro l’aspetto identitario (il lavoro non è più ciò che struttura la mia identità di cittadino, ma una prestazione fra le altre, meno di un cottimo) fa sua insomma quella plasticità della definizione di ciò che è lavoro e ciò che non lo è, ma si esime dall’immaginare un mondo diverso in cui pensare tutela e dignità anche per chi non è contrattualizzato, è in formazione, è disoccupato.
Queste sono le gravi responsabilità di chi ha concepito questa legge. Dall’altra però ci sono anche quelle di chi in questi anni ha pensato che tra le reliquie del Novecento ci fosse anche il sindacato. Con un po’ di spietata tenerezza uno alle volte si chiede: perché esiste una generazione di persone che in nome di un fantasma di riconoscimento sociale accetta di scrivere per un giornale a 3 euro a pezzo, insegnare a centinaia di persone all’università per un euro a semestre, si danna l’anima per un dottorato senza borsa, non batte ciglio di fronte alla proposta di pagarsi di tasca propria un tirocinio?
Poi, se alla tenerezza subentra un po’ più di ferocia contro se stessi, ci si può anche chiedere: come campa questa gente? Come va al cinema? Come si compra il cellulare nuovo? Come va in vacanza? L’impressione che si ha, frequentando molti di quei trentenni iperformati di cui l’Istat condanna almeno un 30% alla disoccupazione, è che in Italia esista una sorta di welfare dello status. Una serie di famiglie di pensionati o prepensionati che finanziano finché possono il limbo di questi post-laureati con redditi da fame pur di conservargli una forma in vitro di credibilità. Mamma e papà pagano l’assicurazione per la macchina, la frizione se si rompe, l’Ipad al compleanno, il dentista… alimentando una specie di grande bolla illusoria che le cose andranno meglio, che prima o poi un contratto per loro figlio arriverà, e intanto il loro figlio può non mendicare al lato della strada, chiedendo qualche spiccio per curarsi una carie dolorosa.
È anche questa allucinazione di massa che ha fatto sì che oggi la rivendicazione di diritti, la sindacalizzazione siano considerate pratiche obsolete, se non inimmaginate. Quello che si vuole spesso non sono né soldi né diritti, ma uno status. Il feticcio dello status è ciò che ha compensato l’assenza di una forma di coscienza di classe seppure embrionale. È incredibile come questa generazione di lavoratori precari, iperflessibili, sfruttati e senza futuro, condivida una condizione così comune – una condizione che è quasi un tono emotivo per quanto è specifico: un basso depressivo di rassegnazione – e fatichi così tanto a trovare il modo di organizzarsi politicamente.
Christian Raimo
19/4/2016 www.fiom-cgil.it
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