“La fine del capitalismo, dieci scenari”. Un libro
C’è stata una parentesi nella storia del capitalismo in cui il sociale è riuscito ad emergere dall’economico. Aveva rilevanza, in quanto sociale, per il riconoscimento giuridico che lo stato gli attribuiva in forza della sua esistenza come popolazione disciplinata dal lavoro salariato. In funzione della mediazione con l’economico, lo stato aveva ricevuto legittimazione dal sociale. La democrazia, che come parvenza funzionava fin dall’800, era stata giuridicamente ridefinita in senso sostanziale con una articolazione istituzionale orientata a garantire il benessere del sociale. Le politiche economiche e fiscali, pur racchiuse in uno spazio definito dall’economico, realizzavano questo obiettivo attraverso la crescita e lo sviluppo. Agenti dello sviluppo erano le imprese regolate dallo stato, che interveniva sui processi economici stabilendo vincoli per il mercato, e sosteneva la domanda creando quel reddito aggiuntivo che il capitale non poteva o non voleva assicurare, permettendo la riproduzione delle condizioni di crescita e di sviluppo.
Questa parentesi è ormai chiusa, e se ne è aperta un’altra. Il sostegno dello stato alla domanda, come condizione di crescita e sviluppo, è venuto meno, e il sistema cerca di garantire l’offerta spingendo all’indebitamento e abbassando i prezzi mediante una infaticabile ristrutturazione del sistema produttivo. Flessibilizza il lavoro per abbatterne i costi; riduce l’immobilizzo dei capitali fissi e dei mezzi di produzione; limita il valore unitario delle merci mediante una spinta frammentazione e diversificazione. Ma crescita e sviluppo restano costruzioni illusorie, e le innovazioni concettuali sono finalizzate a sanzionare le interferenze del sociale, che ostacolerebbero lo stato in quanto garante dell’economico. Le sue debolezze a livello nazionale vengono curate dallo stato sovranazionale che, autolegittimandosi in quanto alfiere della libertà economica e della competizione, interviene sul sociale facendolo investire dai dispositivi del mercato, disciplinandolo alla sua razionalità e sottoponendolo ai suoi criteri di valutazione.
L’economia sociale di mercato, che ha forgiato l’architettura istituzionale sovranazionale europea, definisce principi formali di rilievo costituzionale per direzionare i governi degli stati nella loro azione sull’economico e sul sociale. Solidità monetaria e politica fiscale orientata a spezzare il circolo vizioso dell’indebitamento, comprimendo i costi del sociale ed eliminando i particolarismi dei mercati nazionali per affermare il principio generale della libera competizione. Fine ultimo è la costruzione di un ordine ritenuto corrispondente alla natura delle cose e degli uomini, con un mercato che, protetto dalle ingerenze del sociale, e rassicurato dalla vitalità delle forze che lo abitano, va messo in grado di riprodurre gli esseri umani in funzione delle loro diverse capacità imprenditive. Solo lo stato sovranazionale governato da tecnocrati è in grado di educare gli stati nazionali ad uscire dal pantano, sostenendoli nella ridefinizione del sociale con tecnologie di governo delle potenziali conflittualità.
La governance costruisce soggetti governabili entro l’ordine competitivo, creando “una camera di compensazione per quei problemi di ordine sociale che il capitalismo ha creato e che lo mettono in crisi”[1]. La sua ideologia enuncia esattamente ciò che la realtà racconta, e definisce i principi statutari a cui la realtà diversa che insiste sulla priorità del sociale deve conformarsi. Risorse materiali alimentano sistemi di pensiero che eludono il problema di fondo e giustificano i principi statutari. Agli accademici offrono un apparato di conoscenze che condiziona i percorsi scientifici. Ai politici garantiscono la riconquista dei poteri persi nell’era dello stato supermercato. Alle forze sociali prospettano la possibilità di sviluppare senza mediazioni rapporti costruttivi con gli attori economici e politici.
“Quanto più, in quest’ordine mondiale, si accumulano le catastrofi, tanto più incisive, ad ogni nuova crisi, si fanno le richieste stereotipate dettate dall’ignoranza asinina della coscienza ufficiale”[2]. L’economia sociale di mercato è l’ossimoro prodotto da questa coscienza asinina. “Per i socialdemocratici è un segnale del sostegno del sociale sull’economico. Per i popolari è l’affermazione della dottrina sociale cristiana e del principio di sussidiarietà, e quindi una via salvifica per affrontate i problemi dell’economia globalizzata e dei suoi meccanismi. Per i liberali è il primato della competitività e dell’efficienza del mercato come precondizione per qualsiasi ‘socialità’. Per i conservatori è la necessaria subordinazione dell’individuo ai legami e ai valori comunitari per plasmare una condotta economica guidata da criteri di responsabilità. Anche all’interno della sinistra si sta rivalutando l’economia sociale di mercato come alternativa al capitalismo predatorio delle multinazionali e della grande finanza”[3]. Si può aggiungere che nella costruzione del sociale la governance imbriglia finanche la sinistra della sinistra.
Perché tanta convergenza? “Si tratta esplicitamente di autoregolazione meccanica di un nesso sistemico autonomo, le cui assurde leggi si sono sedimentate come fatti naturali (l’economia di mercato, vale a dire il capitalismo). Nella realtà la vita sociale non è guidata dalla discussione e dalla consapevole decisione comune dei membri della società. (…). Dietro i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario vi è un quarto potere – il potere strutturale del sistema totale del mercato” [4].
Può essere irrazionale il sociale rispetto all’economico? Questo è, alla fin fine, il problema che richiede una soluzione per chiudere la seconda parentesi della storia recente del capitalismo. Ma sembra irrisolvibile, nonostante i funambolismi degli economisti che denunciano la gravità della situazione cercando invano di porvi rimedio. Si apre così lo spazio per la negazione del capitalismo, non in prospettive utopiche, ma come conclusione di ragionamenti paradigmatici coerenti, relativi alla sua evoluzione storica, e alla dinamica del capitale quando viene considerato come motore del capitalismo.
Un tempo, per molti, la classe operaia era il soggetto storico che avrebbe dovuto traghettare la società oltre il capitalismo. Il verso della lotta di classe però è cambiato; ora trova impulso dall’alto, e sposta ricchezza verso i vertici della piramide sociale. Tuttavia Marx è più vivo che mai per chi, con le sue lenti, non rinuncia alla lotta e guarda alla fine del capitalismo per riscattare il sociale, mentre i reduci del vecchio marxismo perseguono la vecchia strada delle compatibilità, rinchiudendola nella catena del valore in nome della priorità del lavoro, nonostante l’insopportabilità delle condizioni in cui viene erogato.
Alla compressione del sociale reagisce anche chi è metodologicamente abituato ad usare le categorie di un Weber che considera l’uomo storicamente partecipe della realizzazione della ‘gabbia di acciaio’ imposta dall’economia. Il baratro verso cui corre il capitalismo sta ormai ben oltre quell’orizzonte.
E’ stato Wolfgang Streeck, eminente scienziato sociale tedesco, a sollecitare la mia attenzione sulla fine del capitalismo, tanto da indurmi a guardare agli altri scienziati sociali che nell’ultimo decennio hanno affrontato l’argomento. Giovanni Arrighi aveva annunciato la fine della storia del capitalismo già a metà degli anni ’90 del ‘900, e nel 2009, alla vigilia della morte, aveva confermato la previsione. Nel 2007, André Gorz, prima di decidere di morire, era giunto per altra via ad una conclusione per alcuni aspetti analoga. Robert Kurz, deceduto nel 2012, aveva intuito fin dal 1985 che il capitale sarebbe finito, ed ha continuato a sostenere questa tesi con analisi puntuali. Gli altri – Immanuel Wallerstein, David Harvey, Moishe Postone, Paul Mason e Jeremy Rifkin – sono, come si usa dire, vivi e (più o meno) vegeti, e si sono espressi in tempi diversi su questo argomento senza poi modificare le loro posizioni.
Mi sono imposto di individuare le diverse strade che li hanno indotti a prevedere la fine del capitalismo esaminando e sintetizzando i loro paradigmi. Li ho esposti senza intromettermi; spesso li ho fatti parlare, e, quando possibile, attingendo ad interviste già pubblicate, utili per fornire interpretazioni dirette. Ho raggruppato i testi in capitoli, che da un lato si richiamano a scuole di pensiero, come l’Economia mondo e la Critica del valore; dall’altro realizzano una progressione tematica che va dalla fine della storia del capitalismo, alla assenza/presenza di un soggetto contrapposto al capitale, all’autoliquidazione del capitale per ragioni inerenti alla sua dinamica, e, infine, all’emergenza, sulle sue ceneri, di una nuova società. Aggiungo, nelle conclusioni, un altro punto di vista sulla fine del capitalismo, frutto di una mia riflessione.
Quali indicazioni si possono anticipare come risultato della comparazione dei testi, che, per inciso, prevedono la fine del capitalismo al più tardi entro i prossimi 50 anni?
In primo luogo, dopo un secolo e mezzo in cui le sorti del capitalismo erano state affidate ad un qualche soggetto rivoluzionario, adesso tutti ne riconducono la fine fondamentalmente a fattori oggettivi, da un lato per l’ineluttabilità dei cicli storici, dall’altro per i processi che minano il capitalismo dal suo interno. Questo non implica l’inattività del sociale, le cui forze devono orientare il processo terminale. Solo David Harvey fa eccezione, perché, seguendo una metodica teorica che non si distacca dal marxismo tradizionale, cerca di unificarle in un soggetto capace di incidere sul capitale.
In secondo luogo, coloro che convergono sulla tesi che il capitalismo è minato al suo interno attribuiscono una funzione decisiva alla terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie informatiche. L’enfasi è posta da alcuni sulla riduzione del lavoro, che, ritenuto fonte insostituibile del valore, fa venir meno la sostanza del capitale; da altri sulla riconfigurazione del sociale sulla base della rete e delle produzioni di rete, che apre la strada al postcapitalismo. Anche qui un eccezione, quella di Wolfgang Streeck, per il quale a minare il capitalismo, senza aprire nuove prospettive, è il neoliberalismo, che ha distrutto ogni freno all’avidità, facendolo precipitare verso un baratro.
Queste sintesi approssimative di ciò che emerge dalla lettura dei testi, non danno ovviamente conto della complessità delle dinamiche teoriche e analitiche, che, come preciso nelle conclusioni, distinguono tra capitalismo e capitale e tra diverse concezioni del capitale.
[1] Commisso G., La governance nell’economia sociale di mercato, Materiali per una storia della cultura giuridica, XLV, 1, 2015 p. 283.
[2] Kurz, R., In attesa degli schiavi globali, blackblog.francosenia, 25 aprile 2016.
[3] Commisso G., La genesi della governance dal liberalismo all’economia sociale di mercato, Trieste, Asterios, 2016.
[4] Kurz R., La sostanza del capitale, blackblog francosenia, 20 gennaio 2016.
fonte: cambia il mondo
sul sito della casa editrice Asterios potete leggere le prime 40 pagine del libro
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