Povertà, l’Italia ha rinunciato a combatterla
Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà, istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio. Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà», queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese.
Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica. I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà, in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto. Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti. Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne.
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi.
Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro. Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%). A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori.
Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato. L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà. Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica. Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti. Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli. L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano.
Questo stato di cose spiega perché anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà, anzi il divario come abbiamo visto aumenta. Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica. La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci. Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità.
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità. Per ultimo il Ddl povertà, che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità.
Giuseppe De Marzo
Campagna Miseria Ladra, Libera-Gruppo Abele
16/10/2015
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