Sotto a chi tocca (la coerenza di Pietro Ichino). Un assalto – naturalmente sotto l’egida dell’ennesima “riforma” – alla legge 223/91; in particolare, nella parte relativa alle procedure di cui ai licenziamenti collettivi.

Un merito va, sicuramente, riconosciuto a Pietro Ichino: la coerenza delle posizioni e la tenacia con la quale persevera nel conseguimento dell’obiettivo, di volta in volta, individuato!

L’ha fatto – con grande linearità – dall’interno (prima) dell’ex Pci e poi delle sue successive “metamorfosi” (mi scappava quasi: “degenerazioni”)!
Senza di lui, infatti, credo sarebbe stato almeno un po’ meno facile, se non più difficile, che nel nostro Paese, patria del Diritto – in primis, di una Legislazione del lavoro rispettosa della tutela degli interessi dei lavoratori – l’ex Pci, fino all’ultimo Pd, potesse prestarsi a una clamorosa escalation nell’erosione dei diritti.
Tutto ciò si è realizzato perché, come alcuni sostengono, a Ichino è stato consentito di svolgere – dall’interno delle suddette formazioni politiche – un’opera di vera e propria “quinta colonna” delle parti datoriali.
Un compito agevolato anche dalla possibilità di un facile “proselitismo”. Tra un personale politico che – nonostante le dichiarazioni di principio dei “duri e puri” dell’ex Pci e, a prescindere, dalla già radicata presenza (nel Pd) di soggetti che in realtà mai avevano avuto nulla da spartire, in concreto, con una “sinistra” vera (da Nerozzi a Morando, in aggiunta ai “democristiani” di terza e quarta generazione) – aspettava solo l’occasione più propizia per smentire l’affermazione di Luigi Pintor: “Non moriremo democristiani”!
Se questo è vero, risponde probabilmente a verità anche l’attuale “iconografia” che alcuni associano oggi a Pietro Ichino.
Lo strenuo difensore della “moratoria” (prima) e del sostanziale “azzeramento” (poi) dell’art. 18 dello Statuto, viene, infatti, da più parti definito come colui che, dopo aver svolto egregiamente compiti da quinta colonna – all’interno di una formazione di sinistra(!) – ha consolidato una “testa di ponte” nel partitino guidato da Monti.
Da quella “postazione”, si appresterebbe a sparare le ultime, forse decisive, “bordate” per la definitiva riaffermazione di quei poteri datoriali dei quali molti lo ritengono espressione e strenuo paladino!
Personalmente, già in altre sedi ho più volte evidenziato che la tenacia e la determinazione con la quale l’ex senatore Pd persegue obiettivi che in realtà – per chi non si lascia abbindolare dalle chiacchiere e, soprattutto, conosce (almeno quanto lui) le norme di legge – hanno poco da spartire con gli interessi reali dei lavoratori, sarebbero degne di migliori cause.
In particolare quando utilizza, come “credenziali” la ormai lontanissima collaborazione (all’alba della sua attività di legale) con la Cgil.
Il dato certo (direi incontrovertibile) – che, tra l’altro, appare condiviso da numerosi “esperti”, che nulla hanno da invidiargli, in termini di credito e autorevolezza – è che la sua determinazione a “riformare” la Legislazione del lavoro italiana sembra dettata dall’irrefrenabile volontà di “ridurre”, “contenere”, “sterilizzare” e, perché no, “cancellare”!
Il problema, a mio avviso, è che – purtroppo – la sua opera sta riscuotendo successo. Anche se egli, “amabilmente”, si esprime in termini di semplice e – parrebbe – incruenta, “sostituzione delle tessere del mosaico”.
In questo senso, con sua contenuta soddisfazione, appena qualche anno fa, abbiamo assistito – per opera della legge Fornero – al sostanziale “svuotamento” della “giusta causa”, nei licenziamenti individuali di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
E’ di queste ore la discussione relativa all’ennesima riforma del mercato del lavoro (è la volta del “Job act”), contenente, tra l’altro, la sciagurata ipotesi del ricorso al c.d. “Contratto a tempo determinato a tutele crescenti” (nell’ipotesi Ichino; di gran lunga peggiorativa rispetto a quella di Boeri e Garibaldi).
A questo si accompagnano nuove disposizioni – che non esito a definire “liberticide” – relative al c.d. “demansionamento” e ai trasferimenti – resi “più agevoli”, per usare un eufemismo – dei lavoratori da una sede di lavoro all’altra.
Contemporaneamente, non si placa il “sacro furore” nei confronti di quel che resta dell’art. 18!
Naturalmente, anche qui, Ichino è in prima fila nel sostenere il definitivo superamento dell’inviso strumento.
Considero, inoltre, ancora più rischioso il futuro che ci attende.
Non a caso, sono già alcuni anni che pavento l’introduzione, anche in Italia, del “Salario minimo legale”; così come operante negli Usa e in alcuni altri paesi dell’Ue. A questo riguardo, è opportuno precisare che, alla fine, la sua eventuale introduzione potrebbe (tragicamente) rilevarsi solo un fatto apparentemente positivo – peraltro, tutto da dimostrare – per i lavoratori subordinati attualmente privi di un contratto collettivo.
Potrebbe, infatti, nel medio-lungo periodo, rappresentare una vera e propria iattura per quei milioni di lavoratori che, invece, oggi godono di un Ccnl e di livelli retributivi minimi fissati dalla contrattazione collettiva.
Chiarisco che parlo di conseguenze nefaste perché, da impenitente “malpensante” – nei confronti della stragrande maggioranza della classe imprenditoriale italiana – già immagino la sequela di disdette e mancati rinnovi contrattuali cui ricorrerebbero le parti datoriali (Marchionne docet) prima di applicare, “urbi et orbi”, il salario minimo legale!
Nient’altro che una gigantesca speculazione economica e una colossale beffa alle spalle di lavoratori che, a mio parere, si tenta in tutti i modi di ridurre allo stato servile.
In più, è opportuno rilevare che Tito Boeri, autore di una proposta abbastanza definita di salario minimo legale – almeno nelle sue linee generali – ipotizza che lo stesso possa realisticamente essere compreso tra i 5,00 – 5,50 € (lordi) orari.
Considerato che anche Ichino, con Renzi, è un dichiarato sostenitore del salario minimo legale, credo tutti abbiano fondati motivi di temerne le conseguenze!
Tra l’altro – grazie alla palese “complicità” di Cisl e Uil (con il governo e con l’esperto “di turno”) nell’opera di “destrutturazione” del Diritto del lavoro italiano e la sostanziale “inoffensività” della Cgil – appare chiaro che il nostro è un Paese che si è (ormai) abbandonato all’inevitabile “ridimensionamento” dei diritti dei lavoratori.
Purtroppo, però, non finisce nemmeno qui.
Già da qualche tempo paventavo un altro pericolo. Un assalto – naturalmente sotto l’egida dell’ennesima “riforma” – alla legge 223/91; in particolare, nella parte relativa alle procedure di cui ai licenziamenti collettivi.
Da qualche giorno, temo l’attacco abbia avuto ufficialmente inizio.
Lo deduco da un “editoriale” apparso sul sito web di Pietro Ichino. Certo, non si tratta delle prime “sferzate” all’indirizzo dei lavoratori in regime di “mobilità”, però ho il presentimento che – una volta risolto, in via definitiva, il problema dell’art. 18 e concretizzatosi il contratto a garanzie crescenti – il prossimo obiettivo dell’ex senatore Pd sia proprio la legge 223/91.
Riesco persino a immaginare (già) le dotte motivazioni dei riformisti “di turno”.
“Normativa troppo ampia e dispersiva” (Sacconi)!
“Di difficile lettura e ancora più complessa applicazione; intraducibile in inglese” (Ichino)!
Attenzione dunque: a nessuno potrà poi essere concesso di sostenere di aver ignorato e/o non inteso i termini reali delle questioni poste.

Renato Fioretti
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
1/10/2014

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