Pari opportunità. In azienda serve una rivoluzione
Negli ultimi anni l’impegno delle aziende italiane per le pari opportunità sembrerebbe aumentato, complici anche le richieste provenienti dai principali attori dell’agenda politica ed economica mondiale, dagli organismi internazionali ai fondi d’investimento etici. Tra le iniziative adottate si possono annoverare l’aumento della flessibilità degli orari di lavoro, una maggiore disponibilità a concedere il part-time o il telelavoro, facilitazioni nella gestione dei servizi di cura (es.: asili nido aziendali). Più di recente, sembrerebbero riscuotere un certo successo i programmi rivolti alle neo-mamme, mirati a favorire un aumento della consapevolezza delle competenze acquisite con l’assunzione del ruolo genitoriale.
I programmi per le neo-mamme
Il rientro dal congedo di maternità costituisce un momento critico nella vita professionale di molte donne. Alle incognite in merito ai possibili cambiamenti intercorsi in loro assenza e al timore di essere oggetto di penalizzazioni si aggiunge spesso un senso di insicurezza latente derivante dall’essere state private della propria identità professionale per diversi mesi, relegate a mansioni a cui la nostra società accorda scarsa considerazione, quotidianamente sottoposte a imprevedibili e improrogabili richieste da parte dei figli. In linea teorica, un percorso mirato a restituire a queste lavoratrici la fotografia delle prove superate evidenziando il potenziamento di qualità come l’energia, il senso di responsabilità e l’empatia, strategiche anche per le funzioni manageriali, potrebbe rivelarsi utile al fine di accrescerne l’autostima e la motivazione.
Le perplessità in merito all’efficacia di queste iniziative non riguardano i contenuti bensì le modalità con cui sono attuate nellamaggior parte delle aziende italiane, a partire dagli aspetti più concreti. In diversi casi l’erogazione di questi programmi inizia durante il periodo di congedo, una scelta discutibile se si considera che:
- il congedo obbligatorio nasce proprio per dare alle donne la possibilità di dedicarsi, in maniera esclusiva, alla propria salute e a quella del figlio, senza ulteriori oneri;
- il congedo facoltativo (il cosiddetto congedo parentale) prevede una decurtazione della retribuzione pari al 70%, a fronte della quale l’azienda propone alla dipendente di devolvere una parte del proprio tempo libero (che è già pressoché nullo, come ben sa chiunque si sia trovato ad accudire un bambino di pochi mesi) a riflettere su quante cose stia imparando a fare.
Non sarebbe più opportuno dimostrare la consapevolezza che l’azienda ha maturato in merito al valore del lavoro di cura integrando la retribuzione pesantemente falcidiata durante il congedo, rinviando l’avvio dei programmi di tutoring all’effettivo rientro in servizio?
Dal punto di vista più sostanziale, il principale limite di questi programmi è dato dalla loro incoerenza rispetto alla strategia complessiva di contrasto alla discriminazione di genere attuata dalla maggior parte delle aziende che li adottano, intesa non solo in termini di misure per la conciliazione ma includendo anche i fattori premianti o penalizzanti per l’avanzamento professionale. Se accademici e addetti ai lavori sostengono da anni la necessità di modificare la cultura organizzativa dominante, che rafforza gli stereotipi di genere e consolida le barriere all’ingresso delle donne ai vertici aziendali, appare pleonastico affermare che i percorsi rivolti alle neo-mamme, per essere credibili, dovrebbero essere preceduti e accompagnati da un piano di azione sinergico e articolato che consenta di rimuovere le distorsioni esistenti.
Diversamente, questi programmi di accompagnamento rischiano di essere interpretati come sintomi di una forma di schizofrenia organizzativa o come tentativi di pinkwashing anziché testimoniare la volontà di segnare un punto di svolta definitiva. In assenza di una strategia più ampia e ambiziosa non è da escludersi che, nell’osservare il divario tra la valutazione delle proprie capacità – che l’azienda stessa si premura di celebrare con questi percorsi – e l’assenza di riconoscimenti concreti, le destinatarie di questi interventi avvertano un’amplificazione del senso di ingiustizia subìta.
Anche laddove le aziende non dovessero ottenere il risultato paradossale di scoraggiare le partecipanti ai programmi per le neo-mamme, il confronto con altre realtà europee – la Francia, ma anche i paesi del nord Europa – sembrerebbe suggerire la necessità di una rivoluzione culturale che muova da due presupposti fondamentali:
- il coinvolgimento degli uomini nelle strategie per la conciliazione è condizione necessaria per la loro efficacia;
- pur non essendo attori istituzionali, se vogliono accreditarsi come datori di lavoro attenti alle pari-opportunità le aziende devono diventare agenti di cambiamento anche in ambiti apparentemente privati, quali la suddivisione del lavoro all’interno della coppia.
D’altra parte, anche a rigor di logica concentrarsi esclusivamente sulle neo-mamme per sconfiggere la discriminazione di genere equivarrebbe ad affrontare la violenza di genere intervenendo solamente sulle vittime: un approccio al problema quanto meno parziale.
L’esempio francese
Le sezioni dedicate alle pari opportunità dei siti delle aziende francesi si distinguono per la molteplicità di campagne e azioni finalizzate a rimuovere le cause strutturali della discriminazione, dall’iniqua suddivisione delle mansioni di cura alle ripercussioni negative – siano esse percepite o reali – a carico dei dipendenti che assumono un ruolo genitoriale più attivo. L’impressione che si guadagna dalla lettura delle iniziative assunte da queste aziende è che, almeno in Francia, i tempi sono maturi per scardinare un’organizzazione del lavoro che premia l’ultimo ad abbandonare l’ufficio, plasmata su modelli di famiglia arcaici in cui l’uomo era totalmente asservito alla causa di procacciare il sostentamento per la famiglia fuori dalle mura domestiche (il cosiddetto breadwinner) mentre la donna era interamente specializzata nei lavori di cura e nella produzione di beni e servizi in economia. A titolo esemplificativo, un buon barometro del dibattito sulla conciliazione in Francia è rappresentato dall’Observatoire de l’Equilibre des Temps et de la Parentalité en Entreprise, incubatore di buone pratiche per le pari opportunità a cui risultano iscritte più di 500 aziende tra le quali BNP, Paribas, Carrefour e L’Oreal.
I firmatari della Carta dell’Observatoire sono chiamati ad agire lungo quattro direttrici fondamentali:
- l’identificazione e l’interdizione delle pratiche che favoriscono la discriminazione, in primis le riunioni fissate oltre l’orario di lavoro, la penalizzazione dei dipendenti che usufruiscono del tele-lavoro o del part-time e più in generale la cultura del presenzialismo;
- l’incoraggiamento rivolto ai padri a dedicare maggiori risorse alla gestione delle proprie responsabilità familiari, a partire dal congedo di paternità, impegnandosi a tutelarli da eventuali ripercussioni negative;
- la formazione dei manager in merito al rispetto della vita privata dei loro collaboratori e dei responsabili delle risorse umane per quel che concerne la non discriminazione e il sostegno alla genitorialità, oltre a programmi di accompagnamento offerti ai dipendenti che si assentano per congedi parentali (non solo le donne);
- l’offerta di sostegno economico integrativo ai dipendenti con responsabilità familiari (es.: contributi per l’asilo nido o le baby-sitter, asili nido aziendali).
Da dove ripartiamo?
Rileggendo le politiche adottate dalle aziende italiane alla luce degli esempi francesi sembrerebbe di poter concludere che anche le imprese nostrane che hanno investito maggiormente in progetti per la conciliazione abbiano in realtà mancato – forse in maniera del tutto inconsapevole – di affrontare il nodo cruciale per lo sradicamento della discriminazione: una cultura organizzativa che premia la presenza o la reperibilità indipendentemente – e spesso anche a discapito – dai risultati raggiunti e che vede il lavoratore come “un uomo a una sola dimensione”, non riconoscendone il bisogno di esprimersi dal punto di vista emotivo, affettivo, sociale, ecc.
Occorrerebbe ripartire da qui, dallo spostamento del focus dalla sola maternità alla genitorialità, consentendo agli uomini di assumere un ruolo più attivo nel far fronte alle proprie responsabilità familiari, senza dover temere penalizzazioni da parte del datore di lavoro. Questa rivoluzione implicherebbe la fine di un’organizzazione del lavoro basata su una forma di concorrenza sleale, in quanto incentrata sulla disponibilità di tempo da destinare al lavoro retribuito, ma soprattutto permetterebbe di superare l’anacronistica contrapposizione uomo-donna, riconoscendo che una percentuale non trascurabile di uomini aspirerebbe a potersi esprimere nella sfera privata e non lo fa per ragioni meramente economiche: visto che all’interno della coppia sono i favoriti in termini di prospettive di crescita professionale, è naturale che siano loro a dedicare maggiori risorse al lavoro “fuori casa”.
Le politiche ad oggi attuate dalle istituzioni e dalle aziende italiane si sono dimostrate inadeguate a spezzare il circolo vizioso generato da questo gioco di aspettative razionali. Resta da sperare che le nuove generazioni, benché svantaggiate dalla progressiva erosione dei diritti, riescano a tradurre le proprie istanze in cambiamenti reali.
Maria Belmusto
9/12/2016 www.ingenere.it
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