Sempre più donne sulle rotte migratorie. Tra sfruttamento e paura
ROMA – Ricercatori e associazioni che si occupano di migranti sono concordi: sono sempre di più le donne che si mettono in viaggio verso un futuro che sperano migliore. Questo fenomeno ha un nome: femminilizzazione delle migrazioni. Per questo, Caritas Algeria, in collaborazione con il Laboratorio di sociologia dell’Università di Algeri II, si è impegnata a prendere in esame le donne migranti subsahariane presenti sul territorio algerino. Due gli obiettivi principali: precisare il profilo della donna migrante e capirne i bisogni per stabilire, sulla base dei risultati, nuovi progetti di aiuto che meglio corrispondano alle loro esigenze. L’inchiesta di Caritas Algeria – pubblicata nel dossier di Caritas italiana “Algeria/Purgatorio dimenticato. Fra i drammi e i sogni dei migranti che fuggono” – è stata condotta nei primi sei mesi del 2016 tra Orano, Algeri e Tamanrasset e ha coinvolto 559 donne. È stato loro distribuito un questionario (anonimo) costituito da 75 domande legate all’evoluzione della loro situazione, tra ancoraggio familiare e/o professionale al Paese d’origine, esperienza del viaggio, insediamento il Algeria e domanda di aiuto. Era previsto anche uno spazio di espressione libera.
Le donne intervistate provengono in particolare dall’Africa occidentale e centrale. I Paesi più rappresentati sono Camerun (59 per cento); Mali (10 per cento); Liberia (10 per cento) e Costa d’Avorio (8 per cento). Le migranti sono generalmente giovani, di età media intorno ai 30 anni. Quasi tutte prima della partenza avevano un lavoro, in particolare nei saloni di bellezza, nel commercio, in alberghi e ristoranti. Circa la metà ha un livello di istruzione pari alla scuola media, il 23 per cento ha frequentato le superiori e l’11 per cento è laureato. Solo l’1 per cento non è mai andato a scuola. Due su tre sono nubili.
Perché hanno lasciato i loro Paesi? Spesso si tratta di ragioni economiche (74 per cento); chi viene da Mali, Costa d’Avorio e Repubblica Centrafricana è in fuga dalla guerra; un 11 per cento fa riferimento a questioni familiari. Tutte hanno viaggiato via terra e in forma irregolare: c’è chi ha scelto la strada più veloce ma anche più pericolosa, chi ha preferito il percorso lungo ma più sicuro, attraverso le capitali, per trovarsi un’occupazione momentanea durante il viaggio in modo da garantirsi il proseguimento. Quasi il 70 per cento delle intervistate ha riferito di avere subìto violenze: verbali, morali, fisiche o sessuali, anche per mano di funzionari corrotti.
“Arrivando in Algeria e passando per le città del sud, in particolare Tamanrasset, sono state alloggiate nei cosiddetti ‘ghetti’, luoghi in cui i migranti sono generalmente suddivisi per nazionalità – denuncia Caritas –. Lì tutto è a pagamento: mangiare, dormire, lavarsi. Si dorme in 20 in una stanza, a terra, su stuoie. Alcune ricorrono alla prostituzione per saldare la propria quota. Le donne che non sono in grado di pagare il viaggio verso le città costiere con fondi propri sono costrette ad affidarsi agli uomini della loro comunità”. Per questi ultimi, infatti, dopo l’iniziale fase di adattamento, è più facile trovare un lavoro (spesso nell’edilizia, spesso ai limiti della legalità). Così, si fanno carico dei costi delle donne, avvalendosi anche dei cosiddetti maquis (una specie di taverna) luoghi abusivi dove si servono alcolici: sono gestiti e accolgono solo migranti. Qui le donne possono trovare alloggio e occupazione: tengono compagnia e servono bevande ai visitatori, totalmente soggette alla proprietà, trattate come schiave (sveglia presto e a letto tardi, essere disponibili a ogni giorni di ogni giorno per servire i clienti). Il 2 per cento delle donne coinvolte nella ricerca hanno vissuto, per un lasso di tempo, nei maquis.
Chi riesce ad arrivare alle città del nord, può ‘scegliere’ tra due diversi modelli di prima accoglienza: l’occupazione abusiva di case in costruzione (che interessa il 7 per cento delle intervistate) o l’affitto di camere o garage appena edificati in cui vivono rispettivamente il 10 e il 47 per cento delle donne. A quel punto, solo chi è in grado di trovare il modo per avere un reddito fisso può passare alla seconda accoglienza, che prevede più comfort, sicurezza e privacy. Nelle condizioni di prima accoglienza è estremamente raro che una donna rimanga sola: la maggior parte contrae un’unione più o meno tollerata con uomo che si prende cura di lei ed, eventualmente, dei figli. Nel 68 per cento dei casi, le migranti coinvolte nella ricerca hanno dichiarato di essersi messe in coppia non per scelta, ma per necessità materiale e finanziaria.
Che sogni hanno queste donne? La metà di loro vuole andare in Europa; il 30 per cento, invece, vorrebbe tornare nel proprio Paese d’origine. Un 14 per cento resterebbe in Algeria; e all’1 per cento farebbe comodo un aiuto finanziario. “Tutte risultano comunque ansiose di ricevere una formazione che potrebbe aiutarle a trovare una piccola fonte di reddito e, di conseguenza, anche di conseguire una certa autonomia”.
Ambra Notari
9/2/2017 Fonte: www.redattoresociale.it
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