Vite strappate, sottrazione di lavoro e salari rubati
Sono trascorsi pochi giorni dallo sciopero dell’8 Marzo e non si sono ancora spente le polemiche , di sicuro molte\i dei fautori della giornata hanno dimenticato un piccolo particolare: lo sciopero è stato nei luoghi di lavoro un flop, le assemblee per promuovere la partecipazione sono state veramente poche e la militanza politica e di genere si è dimostrata spesso lontana dal sentire comune di tanta forza lavoro.
Non critichiamo la giornata dell’8 Marzo ma sia ben chiaro che la valenza politica di questa mobilitazione non ha assunto connotati antigovernativi, possiamo discutere sul rapporto tra classe e genere, sulle iniziative di lotta di qualche area politica interna all’8 Marzo, ma resta il fatto che bisognerebbe partire proprio dalla divisione del lavoro storicamente determinata. se Marx criticava la segregazione domestica delle donne oggi dovremmo porci domande analoghe senza riproporre le filosofie vetero femministe.
Le donne continuano a percepire stipendi inferiori agli uomini ma se guardiamo gli stipendi elevati, i dirigenti e i managers, le differenze sono quasi ininfluenti, piuttosto i posti di comando sono per lo piu’ in possesso dei maschi.
Le differenze risultano invece ancora marcate negli stipendi medio bassi, nelle aziende private dove la presenza in servizio funziona come parametro di giudizio e di valutazione e sappiamo come sulle donne gravi anche il lavoro domestico, la cura dei figli, degli anziani….
E nell’epoca della contrattazione di secondo livello la presenza in servizio diventa preponderante e destinata o a penalizzare le donne o a creare dei fenomeni di degrado sociale perché la loro funzione in ambito familiare viene indebolita anche dal fatto che molte famiglie non possono ormai permettersi decurtazioni di salari già ridotti all’osso.
Rinviamo ad un articolo pubblicato giorni fa sulla Voce.info (clicca qui per originale) estrapolandone un passaggio
“Sul fronte della flessibilità, i dati dell’Ocse mostrano come l’Italia sia ancora indietro: solo il 66 per cento dei nostri datori di lavoro fornisce un adeguato livello di flessibilità, di 2 punti percentuali al di sotto della media Ocse e di oltre 15 punti inferiore ai paesi scandinavi. Per quanto riguarda il welfare aziendale, secondo i dati Istat, il 31 per cento delle imprese del settore dei servizi garantisce l’offerta di asili nido, servizi sociali, di assistenza, ricreativi e di sostegno, ma nella manifatturiera o nel commercio le percentuali scendono rispettivamente al 18 e al 4 per cento.
È ancora troppo poco per incentivare le donne a scegliere il proprio lavoro al di là di considerazioni sul bilanciamento di impegni lavorativi e familiari e per garantire anche a loro una idonea corrispondenza (matching) tra competenze acquisite e tipo di lavoro scelto….”.
Questo passaggio è veramente illuminante perché la condizione femminile, a detta degli autori, avrebbe tutto da guadagnare in un mercato del lavoro piu’ flessibile e si fa riferimento ai paesi scandinavi nei quali si rafforza quel welfare che in Italia stanno distruggendo a colpi di tagli , privatizzazioni, lavoro gratuito del terzo settore e spending review.
La flessibilità in salsa italiana ha femminilizzato (non troviamo un termine migliore) impieghi a lungo ad appannaggio degli uomini con introduzione del part time e di salari inferiori, è stata vincente la lotta di classe dei padroni che all’occorrenza ha usato la emancipazione a suo vantaggio per costruire una forza lavoro piu’ debole, ricattata e disposta ad accettare impieghi part time al posto dei tempi pieni.
Da qui ripartiamo allora perché la emancipazione di genere non sia mai scissa dalla critica all’economia politica e alla divisione del lavoro.
Non vorremmo trovarci in situazioni analoghe a quelle del reddito da inclusione con finanziamenti irrisori ma ad alto uso propagandistico destinate a meno del 10% delle famiglie povere oggi censite.
In Italia le vite strappate non sono solo quelle dei migranti in arrivo sulle coste e destinati a centri di identificazione destinati a crescere di numero dall’ultimo decreto Minniti, le vite strappate riguardano i tanti infortuni e morti sul lavoro, sono ben 110 i morti al giorno 11 Marzo ma se includiamo incidenti in itinere si superano 200 unità (qui per documentazione).
Il sindacato non ha mai portato avanti un vera lotta contro gli infortuni e le morti sul lavoro, eleggere o nominare nei luoghi di lavoro gli rls, rappresentanti dei lavoratori alla sicurezza, fuori da ogni logica rivendicativa e conflittuale, adempimenti burocratici che non si interrogano mai sull’anomalia di un paese nel quale lavorare in sicurezza e conservare la propria salute lavorando è diventato quasi impossibile.
Le anime candide che guardano, giustamente, alle condizioni di lavoro nel sud est asiatico dove le multinazionali hanno delocalizzato il lavoro, bene farebbero a chiedersi come si lavora nella logistica, nei campi per la raccolta di pomodori o in qualche reparto confine di grandi aziende esportatrici, come si lavora ormai anche nella pubblica amministrazione guardando oltre i furbetti del cartellino.
Gli infortuni sono anche il risultato di una organizzazione del lavoro basata sullo sfruttamento intensivo del lavoro vivo, sulle scarse innovazioni tecnologiche, le malattie contratte a causa del lavoro sono in continua evoluzione e tanto piu’ si parcellizzeranno gli ambiti produttivi tanto piu’ difficile sarà anche una semplice ricognizione statistica.
Le vite strappate sono invisibili uomini e donne, un po’ come le operaie e gli operai suicidatisi nelle fabbriche della Foxxon (produttrice per conto di Apple) perché non reggevano piu’ turni di lavoro massacranti, condizioni di semi schiavitù, orari lavorativi superiori alle 10 ore giornaliere, sradicati\e dalle campagne e catapultate\i in dormitori fantasma lontani dalle città e dai luoghi di socializzazione ma vicinissimi alle catene industriali.
Nel nostro paese bene faremmo a sviluppare un ragionamento serio, e non a uso e consumo solo degli addetti ai lavori, sugli stages sull’alternanza scuola lavoro.
Tutti sappiamo che uno stage puo’ essere utile ma attorno a noi vediamo realtà diverse: utilizzo degli stagisti come forza lavoro effettiva per risparmiare sui contratti a tempo determinato.
Accade con i giovani dell’alberghiero nei bar o con gli studenti delle professionali nelle piccole e medie aziende, avviene con gli stagisti impiegati negli eventi come Expo o nelle catene Disney in cambio di un impiego futuro, accade per gli anziani con pensioni da fame (e in futuro saranno sempre piu’ numerosi) disposti a prestazioni volontarie negli ambiti variegati del terzo settore , nel migliore dei casi in cambio di qualche rimborso spesa e di prestazioni socio sanitarie gratuite per gli iscritti alle associazioni. Peccato che questa forza lavoro gratuita o semigratuita vada a rimpiazzare lavoratori e lavoratrici in regolari contratti e minimi sindacali decisi da un contratto nazionale, peccato che attraverso queste forme di sfruttamento subliminato si prosegua nello smantellamento del welfare state.
Il lavoro gratuito è un fenomeno di congiuntura, legato alla crisi ma anche ben radicato nell’Italia del volontariato e del terzo settore. la gratuità è essa stessa la dinamica ricorrente con cui si manifesta oggi lo sfruttamento e la dinamica de- salarializzata che produce a sua volta un abbassamento delle retribuzioni e fa arretrare le condizioni di vita e di lavoro di milioni di uomini e donne.
Guardate che il lavoro gratuito si manifesta in tante forme: portarsi il telefono aziendale o dare il proprio numero per essere reperibili fuori dall’orario contrattuale, lavorare a casa, accettare o subire orari multi periodali o spezzati (pensiamo agli autisti degli scuolabus che lavorano intensamente dei mesi del calendario scolastico facendo risparmiare sugli straordinari e con orari ridottissimi in estate solo per garantire i servizi dei campi solari), il lavoratore autonomo che non sa piu’ discernere luogo di lavoro e spazio privato, la violenza del capitale diventa mistica e piu’ accattivante, difficile da capire e combattere, sicuramente pervasiva e accattivante.
Il volontariato post moderno (rinviamo a un testo recente di F. Coin Salari rubati ombre corte edizioni) diventa cosi’ lo status per una nuova idea di cittadinanza attiva che subordina il lavoro al capitale e condiziona le nostre esigenze interiorizzando un senso di colpa, la colpa di chi ormai ormai non ha piu’ diritti ma solo doveri e ripropone logiche di totale subalternità al captale e alle sue accattivanti e spesso invisibili forme di dominio, un dominio dietro a cui si cela fragilità e contraddizioni
Federico Giusti
12/3/2017 www.controlacrisi.org
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