Agromafie, globalizzazione dei capitali, tratta delle braccia, furti, adulterazione
Il volume d’affari complessivo annuale dell’agromafia e’ salito a 21,8 miliardi di euro con un balzo del 30% nell’ultimo anno. E’ quanto emerge alla presentazione del quinto Rapporto #Agromafie2017 elaborato da Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalita’ nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare. Nel rapporto si evidenzia che questa stima rimane, con tutta probabilita’, ancora largamente approssimativa per difetto, perche’ restano inevitabilmente fuori i proventi derivanti da operazioni condotte ‘estero su estero’ dalle organizzazioni criminali, gli investimenti effettuati in diverse parti del mondo, le attivita’ speculative poste in essere attraverso la creazione di fondi di investimento operanti nelle diverse piazze finanziarie, il trasferimento formalmente legale di fondi attraverso i money transfer in collaborazione con fiduciarie anonime e la cosiddetta banca di “tramitazione”, che veicola il denaro verso la sua destinazione finale.
La filiera del cibo, della sua produzione, trasporto, distribuzione e vendita, ha tutte le caratteristiche necessarie per attirare l’interesse di organizzazioni che via via abbandonano l’abito “militare” per vestire il “doppiopetto” e il “colletto bianco”, come si diceva un tempo, riuscendo cosi’ a scoprire e meglio gestire i vantaggi della globalizzazione, delle nuove tecnologie, nell’economia e della finanza 3.0. Sul fronte della filiera agroalimentare- spiega la Coldiretti- le mafie, dopo aver ceduto in appalto ai manovali l’onere di organizzare e gestire il caporalato e altre numerose forme di sfruttamento, condizionano il mercato stabilendo i prezzi dei raccolti, gestendo i trasporti e lo smistamento, il controllo di intere catene di supermercati, l’esportazione del nostro vero o falso Made in Italy, la creazione all’estero di centrali di produzione dell’Italian sounding e la creazione ex novo di reti di smercio al minuto.
Nel 2016 si e’ registrata un’impennata di fenomeni criminali che colpiscono e indeboliscono il settore agricolo nostrano dove quasi quotidianamente ci sono furti di trattori, falciatrici e altri mezzi agricoli, gasolio, rame, prodotti (dai limoni allenocciole, dall’olio al vino) e animali con un ritorno prepotente dell’abigeato. Non si tratta piu’ soltanto di “ladri di polli” quanto di veri criminali che organizzano raid capaci di mettere in ginocchio un’azienda, specie se di dimensioni medie o piccole, con furti di interi carichi di olio o frutta, depositi di vino o altri prodotti come file di alveari, intere mandrie o trattori caricati su rimorchi di grandi dimensioni.
La graduatoria delle province italiane rispetto all’estensione e all’intensita’ del fenomeno agromafia nel 2016, se fotografa una concentrazione del fenomeno soprattutto nel Mezzogiorno, evidenzia la presenza nella top ten di rilevanti realta’ del Nord come Genova e Verona rispettivamente al secondo ed al terzo posto dopo Reggio Calabria per i traffici finalizzati al ricco business del falso Made in Italy. Nel dossier e’ stata calcolata l’intensita’ del fenomeno delle agromafie per provincia sulla base delle risultanze quantitative delle azioni di contrasto specifiche poste in essere dalle diverse Forze dell’ordine per questo particolare aspetto criminale.
Se le province di Verona, Padova e Treviso sono nella lista nera del rapporto “Agromafie” sui crimini agroalimentari in Italia, e’ soprattutto a causa della nazionalizzazione di suini esteri e dell’adulterazione di vino e grappa che avviene sul territorio. Le scorrettezze descritte alzano infatti la media di crimini agricoli portandola a superare quella nazionale.
Guardando alla classifica nazionale, elaborata utilizzando un indice calcolato come combinazione di una serie di variabili che indicano la presenza di organizzazioni criminali nel territorio, Verona si piazza addirittura al terzo posto, Padova al 12esimo e Treviso al 17esimo, conclude Coldiretti.
Ma l’ombra degli affari illeciti si allunga anche sui prodotti importati, soprattutto quando la criminalità allunga le proprie mani sulla tratta delle braccia. Dal riso asiatico alle conserve di pomodoro cinesi, dall’ortofrutta sudamericana a quella africana in vendita nei supermercati italiani fino ai fiori del Kenya, quasi un prodotto agroalimentare su cinque che arriva in Italia dall’estero non rispetta le normative in materia di tutela dei lavoratori, a partire da quella sul caporalato, vigenti nel nostro Paese. Il focus specifico dedicato al ‘caporalato nel piatto’, con l’esposizione degli alimenti piu’ a rischio presenti sugli scaffali ha preso in esame tutti gli aspetti del fenomeno. Si stima che siano coltivati o allevati all’estero oltre il 30% dei prodotti agroalimentari consumati in Italia, con un deciso aumento negli ultimi decenni delle importazioni da paesi extracomunitari dove non valgono gli stessi diritti sociali dell’Unione Europea.
‘Caporalato invisibile’ che passa inosservato solo perche’ avviene in Paesi lontani, dove viene sfruttato il lavoro minorile, che riguarda in agricoltura circa 100 milioni di bambini secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), di operai sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, di detenuti o addirittura di veri e propri moderni ‘schiavi’. E tutto questo accade nell’indifferenza delle Istituzioni nazionali ed europee che anzi spesso alimentano di fatto il commercio dei frutti dello sfruttamento con agevolazioni o accordi privilegiati per gli scambi che avvantaggiano solo le multinazionali.
Un esempio e’ rappresentato dalle importazioni di conserve di pomodoro dalla Cina al centro delle critiche internazionali per il fenomeno dei laogai, i campi agricoli lager che secondo alcuni sarebbero ancora attivi, nonostante l’annuncio della loro chiusura. Nel 2016 sono aumentate del 43% le importazioni di concentrato di pomodoro dal Paese asiatico che hanno raggiunto circa 100 milioni di chili, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente. In questo modo, c’e’ il rischio concreto che il concentrato di pomodoro cinese, magari coltivato da veri e propri “schiavi moderni”, venga spacciato come Made in Italy sui mercati nazionali ed esteri per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta la provenienza. Un problema che riguarda anche il riso straniero i cui arrivi in Italia hanno raggiunto il record nel 2016, con una vera invasione da Oriente da cui proviene quasi la meta’ delle importazioni secondo il Rapporto Coldiretti, Eurispes e Osservatorio sulla criminalita’ nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.
Fabrizio Salvatori
14/3/2017 www.controlacrisi.org
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