Salute, l’Unione mancata
Non è chiaro che la nostra battaglia deve essere sociale? Che il nostro compito non è quello di scrivere le istruzioni per proteggere i consumatori di meloni e di salmoni, di dolci e gelati, cioè la borghesia benestante, ma quello di creare istituzioni che proteggano i poveri, coloro che non possono permettersi pane fresco, carne e caldi vestiti? È triste constatare che migliaia devono sempre morire in miseria per consentire a poche centinaia di vivere bene”: l’indignazione del patologo tedesco Rudolf Virchow a fronte della indifferenza dei governanti verso le condizioni di miseria in cui versava la popolazione a Berlino nella metà dell’800, di grande attualità, ci sprona a richiamare subito due dolenti circostanze del tempo presente. La prima, forse poco nota ai più, è che sessanta anni di Europa unita non sono bastati ad architettare una politica unica per la salute, così che il ruolo della UE in questo ambito si limita ancora alla – indispensabile per carità, ma del tutto insufficiente – tutela dei consumatori. La seconda è che lo stato dell’Europa del 2017, dati alla mano, assomiglia sempre di più allo scenario dei molti che vivono in miseria per consentire la ricchezza sproporzionata e violenta di un élite senza scrupoli. Stando alle ultime statistiche, solo in Italia sono 4,6 milioni le persone che vivono in povertà assoluta.
La salute è l’indicatore più precoce e drammatico della patologia di sistema che tramortisce il continente nel suo sessantesimo anniversario di unificazione. Ci ricordano le raccomandazioni della Commissione Europea che il conflitto tra la dimensione economica e quella sociale del processo di integrazione, nell’Europa dell’austerità a ogni costo, segna una messa in mora del principio di non discriminazione dei cittadini europei nell’accesso al welfare e ha un portato di trasmissione inter-generazionale destinato a prolungare il guasto nelle cittadinanze del futuro (“Investire nei bambini: spezzare il ciclo dello svantaggio”, 2013). Il welfare è importante perché riducendo disuguaglianza e povertà promuove la crescita. Un’Europa che sottrae attraverso rigide regole fiscali, invece di aggiungere, non è sostenibile sotto il profilo economico; ma il welfare è decisivo soprattutto in quanto strumento di stabilità politica.
La disuguaglianza è dunque un evento sistemico che va corretto. Il persistente inasprirsi del fenomeno, con il decennale ciclo di crisi finanziaria e recessione economica, interessa diverse variabili della disuguaglianza sanitaria: mortalità, salute mentale, salute auto-percepita, eccessivo consumo di alcol, qualità della vita negli anni, malattie croniche e disabilità. Uno studio pubblicato sull’International Journal for Equity in Health nel settembre 2016 riporta un’impennata delle disparità a partire dal 2010, appunto con l’avvio delle punitive misure di austerità a danno della popolazione europea. Politiche il cui costo veniva valutato, già nel 2011 (“Economic Costs of Health Inequalities in the EU”, Journal of Epidemiol Community Health), in ragione di 700.000 morti e 33 milioni di casi complessivi di cattiva salute nella UE, con un’incidenza del 20% sui costi dei servizi sanitari e del 15% dello stato sociale. Su base annua, le perdite legate alle disparità sanitarie riducevano la produttività del lavoro erodendo il Pil dell’1,4%, stimava allora la ricerca, con un valore monetario calcolato intorno ai 940 miliardi di euro l’anno, ovvero il 9,4% del Pil europeo.
La visione sulla medicina sociale di Virchow fu decisiva a influenzare le decisioni di Otto Von Bismark alla fine del XIX secolo, con l’istituzione di politiche di prevenzione e lotta alle malattie che furono il primo modello di welfare state moderno, tanto da ispirare le riforme sanitarie dei paesi industrializzati in Europa. Non ha per niente scalfito i proficui imperativi dell’austerità imposti dall’Unione sui governi europei, invece, la mobilitazione di un numero crescente di medici, operatori sanitari e pazienti negli ultimi anni in Spagna, Portogallo, Francia, Italia, Inghilterra, Grecia, man mano che i governi calavano la loro scure su bilanci sanitari e stato sociale. Il 7 aprile (giornata mondiale della salute) è indetta la prima giornata europea di azione contro la commercializzazione della salute, e per la tutela dello stato sociale – il grande pilota del progresso europeo postbellico, improvvisamente divenuto uno sperpero di ricchezza.
Il caso più documentato è la Grecia. Un florilegio di evidenza scientifica racconta l’altissimo prezzo del tallone di ferro sulla vita della popolazione greca, tra caduta libera del Pil del 29% (tra 2008 e 2014), tasso di disoccupazione complessivo al 40% e taglio alle spese sanitarie del 36% (tra 2009 e 2014). Il divario nell’accesso alla salute fra fasce ricche e disagiate della popolazione è decuplicato; e poiché l’accesso alla salute è strettamente legato all’occupazione, chi ha perso il lavoro viene escluso dal servizio sanitario (idem per familiari a carico). Si stima che oltre 2 milioni di persone vivano questa condizione. Lo spaventoso scenario è descritto in un rapporto della Banca centrale (“Deterioramento della salute greca, riduzione dell’aspettativa di vita”, giugno 2016), in cui si intuisce il destino fallimentare cui sono chiamati servizi sanitari senza fondi in un contesto che registra l’aumento del 50% della mortalità infantile, l’incremento del 24,2% di persone con malattie croniche, e la depressione montante – dal 3,3% nel 2008 a 12,3% nel 2013.
Atene piange. Ma non ridono di certo le altre capitali europee. Il rapporto “Access to healthcare in times of crisis”(Eurofound, 2014) propone un’accurata mappatura dei disastri sui tempi di attesa per le visite e le prestazioni sanitarie, sulla soppressione dei presidi ospedalieri, solo per fare alcuni esempi, in Lettonia e Lituania, in Svezia e Lussemburgo, in Slovenia e Romania. L’European Observatory on Health Systems and Policiesdocumenta forti disuguaglianze anche in Francia, non solo in quanto a fattori di rischio ma anche per le disparità geografiche e finanziarie di accesso alle cure; il costo delle prestazioni resta una sfida per il sistema sanitario. In Inghilterra, sotto le mentite spoglie della open society, nel 2012 David Cameron ha preparato il terreno per la privatizzazione dei servizi e in particolare del servizio sanitario (National Health Service, NHS), “la più civile delle istituzioni inglesi” secondo Jeremy Corbin. Oltre al sotto-finanziamento, la riforma ha avuto come caratteri distintivi la quasi totale privatizzazione dell’offerta, ilmercantilismo nei rapporti tra i vari attori del sistema e, in ultima analisi, l’estremaframmentazione organizzativa e dei flussi di finanziamento. La crisi è esplosa all’inizio del 2017 con il più classico indicatore di fallimento del sistema: ospedali che non riescono più a ricevere i malati, dipartimenti di emergenza che scoppiano, chirurgia di elezione sospesa a tempo indeterminato (inclusa quella oncologica), chiusura dei reparti di maternità: più di 20 ospedali hanno dichiarato il massimo allarme, lo scorso gennaio.
Il costo delle cure invece svetta ovunque, condizionando in modo proibitivo sistemi sanitari indeboliti e frammentati, in preda all’estro o all’avventurismo dei privati. Oggi contro il cancro sono disponibili decine di farmaci innovativi capaci di rallentare, e a volte persino fermare, la malattia (e altri sono in arrivo), ma i costi delle terapie sono lievitati sempre di più negli ultimi anni, facendo andare i conti in rosso. La questione delle terapie innovative è un tema centrale: la Commissione Europea ha recentemente pubblicato un report per proporre ai governi opzioni possibili per migliorare l’accesso ai farmaci. Nel 2014, del resto, l’Olanda ha speso 1,7 miliardi di euro per assicurare cure essenziali a 147.000 pazienti, riporta Health Action International (HAI): in media, 11.564 euro per trattamento. HAI ha appena lanciato una campagna nazionale sull’assurdo prezzo dei farmaci: costa 54.000 euro per paziente, ogni anno, la terapia a base di Pertuzumab, contro il tumore al seno, e 50.000 euro un trattamento di Nivolumab contro il tumore al fegato. Il rivoluzionario farmaco Solvaldi contro l’epatite C porta guadagni da capogiro alla multinazionale Gilead Sciences, titolare del brevetto – 30,4 miliardi di dollari di ricavi nel 2016 – ma sconquassa i budget sanitari da quando il farmaco è stato approvato nel 2013. In Olanda, un ciclo di terapia di 12 settimane costa 52.000 euro, in Italia 45.000; il nostro paese riesce a fornire copertura solo ai pazienti più gravi, in deroga al principio universalistico delle cure (sono quasi 300.000 le persone con epatite accertata in Italia). Per questo, alcune settimane fa, la Agenzia del Farmaco (AIFA) ha lanciato una sfida alla casa farmaceutica americana, indicando la possibilità di una licenza obbligatoria per la produzione in proprio del medicinale, sulla scia di India e Argentina, se non ci sarà un abbassamento dei prezzi.
Bene se l’Italia si muoverà in tal senso. Ma l’anniversario dei sessanta anni dell’unificazione europea potrebbe rappresentare un’occasione imperdibile, in tempo di populismi anti-europei, per fare una mossa ancora più incisiva. Coordinare una iniziativa di licenza obbligatoria europea contro l’abuso di monopolio del colosso farmaceutico Gilead, per una leva negoziale più forte, e per costruire una pratica di azione comune a favore delle persone riconoscibile. L’adozione comunitaria delle norme di salvaguardia Trips, e del regolamento UE 816/2006 sulle deroghe alla proprietà intellettuale, potrebbe fungere da iniziativa dirompente su scala globale, contro un mercato patologico e insostenibile che è espressione della più lancinante speculazione finanziaria.
Sarebbe un forte segnale a favore del diritto alla salute. Ma ben oltre la retorica celebrativa, l’Europa ha bisogno di una force de frappe rivolta ai diritti, per continuare ad esistere.
Nicoletta Dentico
4/4/2017 http://sbilanciamoci.info
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