Lavorare nelle cooperative sociali oggi, luci ed ombre
“Potrei scrivere un libro….” è la premessa che qualunque operatore con più di dieci anni di esperienza lavorativa nelle cooperative sociali afferma quando gli si chieda di raccontare le proprie storie.
Luci ed ombre.
In genere le luci sono rappresentate dalle tante persone che beneficiano dei servizi e a cui ognuno di noi ha dato tanto in termini di professionalità e sensibilità.
Professionalità e sensibilità, l’una senza l’altra non produrrebbero i grandi risultati che ci si auspica di poter raggiungere ogni qualvolta inizi una assistenza.
Nelle case, nelle scuole, nelle strutture protette, nei centri di accoglienza e nei mille luoghi in cui ognuno di noi ha contribuito a svolgere bene il proprio lavoro, gli operatori si misurano con la disabilità fisica, psichica, con l’emarginazione, la povertà, la violenza dell’indifferenza di una società che pare non sia più capace di accogliere e di includere le tante facce del disagio sociale.
Le luci generano benessere, sia in chi esercita bene il proprio mandato professionale sia in chi riceve i frutti di questa elaborazione e sono la grande spinta che permette di andare avanti nonostante le ombre che in questo settore spesso sono elemento di frustrazione e malessere devastanti.
Bassi salari, rapporti autoritari e poco cooperativistici, assenza di democrazia interna, contratti disattesi, professionalità e lauree sottomesse al “siamo tutti sulla stessa barca” e alle sempre reclamate difficoltà economiche in cui tutte le cooperative sociali dichiarano di trovarsi da Cuneo a Roma, da Napoli a Palermo.
Lavorare oggi nelle cooperative sociali per chi vi lavora dai primi anni ‘80 è sempre la stessa storia: le cooperative sono sociali solamente per chi le gestisce e le amministra mentre per chi le rende possibili con il proprio lavoro sono fonte di impoverimento economico e frustrazione emotiva.
Da questo numero iniziamo, come avevamo annunciato, la pubblicazione di alcuni contributi che ci stanno pervenendo (garabombosociale2017@autistici.org) e che rendono chiara la situazione anche oltre i confini di Roma.
Da quando lavoro ho sempre lavorato nel sociale, ed anche adesso che sono un effettivo del Ministero della Pubblica Istruzione dislocato ai confini della periferia, intercettando un’utenza tendenzialmente deprivata culturalmente, non faccio fatica a leggere il mio intervento come il tentativo (generoso, inconcludente, illusorio, dovuto – insomma scegliete voi l’aggettivo!) di alleviare il disagio sociale offrendo una via culturale.
Avendo allungato il mio percorso universitario oltre la misura e terminati gli obblighi di leva, mi ritrovai poco meno che trentenne alla mia prima esperienza nel terzo settore. Come poi andai a riscontrare puntualmente negli anni successivi anche in quella prima occasione fui presentato da chi già lavorava all’interno e fui sottoposto ad un piccolo periodo non retribuito di prova, tanto che per tagliare la testa al toro decidemmo di far scattare l’assunzione dal 1° Maggio – ed è strano, adesso che lo scrivo, scopro che anche questa è stata una costante dei successivi rapporti lavorativi intrapresi nel terzo settore, ovvero la pretesa da parte della figura datoriale di trattenersi una quota iniziale di salario, fosse anche simbolica, quasi a dire che il posto viene comprato e non il lavoro venduto!
In quegli anni napoletani ebbi modo di crescere parecchio da tanti punti di vista: nel rapporto diretto con l’utenza – l’appalto riguardava un lotto del progetto di Educative Territoriali; nei rapporti interni con le colleghe e i livelli superiori del progetto e della cooperativa; nel rapporto ai compagni, con i quali cercavamo di costruire una coscienza politica dei lavoratori chiamati ciclicamente dai livelli amministrativi a pressare le istituzioni sempre in ritardo nella produzione degli atti (dicasi pagamenti, continuità dei servizi, sviluppo dell’intervento, ecc.); nel rapporto al Capitale, all’interno del quale provavo a stare assumendo la formula del socio-lavoratore ritenendola utile per difendere la mia forza conflittuale col livello dell’amministrazione.
Sperimentai diverse formule di pagamento, tutte commisurate all’ora prestata ed interna al monte ore mensili, un meccanismo che per un calcolo di aliquote, contribuzioni, agevolazioni e punti percentuali aggiuntivi o mancanti, inevitabilmente non ha mai oltrepassato gli 850€ al mese.
Poi vicende passional-amorose mi indussero a trasferirmi, e qui a Roma scoprii a mie spese cosa significhi lavorare da emigrante. Sì, potrà sembrare uno scherzo, ma il passaggio fu dalla padella alla brace, ricordo la peggior retribuzione di sempre: 5 € l’ora! Nel panorama capitolino ebbi modo di confrontare più player del terzo settore: dalle associazioni vicine ai municipi, che si fanno carico di alleviare i disagi del mondo spremendo oltre ogni decenza chi poi i servizi effettivamente li eroga, alle cooperative! Da esperto d’aula ad assistente domiciliare od operatore sociale o della persona. Insomma al di là delle formalizzazioni contrattuali permaneva la precarietà lavorativa e la scarsezza economica quando, per mia fortuna – ora posso dire -, fui bloccato da due ernie del disco.
In simili circostanze il piano previdenziale interno prevedeva la rapida ripresa dei turni o l’interruzione del rapporto lavorativo; e così fu! In effetti, al termine della breve degenza e dopo un paio di prestazioni di prova mi vidi costretto alle dimissioni, poiché lavorare con il dolore addosso mi trasformava in uno stupido secondino attento solo a quello che l’utente non doveva fare per meno di 20 € in tre ore – ne avrei spesi di più per una controterapia psicologica! Ciò fece maturare in me la necessità di una mia riqualificazione professionale per potermi spendere meglio nel mercato del lavoro – del resto nel mentre mi accingevo a presentare le mie dimissioni alla responsabile del progetto mi accorsi dalla sorpresa in lei suscitata da questo annuncio, che già avevo anticipato al coordinatore e che quindi era circolato nell’ambiente di lavoro, poiché anch’io figuravo in un pacchetto di tre indesiderabili destinatari di licenziamento; capii questo quando seppi che i due compagni, che con me avevano posto in due precedenti assemblee il problema di come si dovesse/potesse trattare con l’utenza, erano stati per l’appunto fatti oggetto di allontanamento.
Adesso lavoro sopratutto la mattina; i bambini che incontro sono sempre gli stessi, come sempre differenti sono le famiglie e i colleghi, anche se incomincio a radicarmi in una mia scuola!
Le istituzioni permangono, io ho cambiato ruolo; da AEC a sostegno; ho provveduto in privato – con un secondo percorso di laurea – a farmi assumere dallo Stato; è stata la mia via al socialismo per me stesso, un socialismo accattone che nell’accontentarsi dell’osso di oggi si strozzerà con le schegge del default annunciato del sistema paese.
In tanta incertezza l’unica cosa certa è che per continuare a sottrarre ricchezza alle masse e permettere la capitalizzazione di plusvalore si amplieranno i margini qualitativi e quantitativi della povertà; di qui a trenta anni, fermo restando le cose, tutti saremo più poveri e tanti che oggi non percepiscono il problema inizieranno a farlo.
Giuseppe Mezzosinistro
15/4/2017 www.lacittafutura.it
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