Lavoro e non lavoro. Quando la notizia accompagna la “bufala”! il silenzio che spesso circonda anche i peggiori esempi di “cattiva informazione”; per ignoranza o, più frequentemente, semplice mala fede. Considerazioni su un breve servizio di Massimo Gramellini nel quale si riportava il caso di un avvocato svizzero, disoccupato, che aveva rifiutato un’offerta di lavoro da “spazzino”.
Il nostro è il Paese nel quale in occasione delle elezioni politiche – secondo un’indagine di qualche anno fa – la maggioranza degli elettori resta “influenzata” dalle indicazioni di voto provenienti dai Tg nazionali. E’ lo stesso in cui oltre il 50 per cento dell’intera popolazione – dai sei ai sessantacinque anni e oltre – dichiara di essere un “non lettore” ed è sufficiente aver letto appena tre libri in un anno per rientrare (addirittura) nella categoria dei lettori “abituali”!
Per “carità di Patria”, evito di riportare i dati relativi ai lettori di quotidiani e periodici.
Così com’è opportuno sorvolare sul fatto che siamo primi, in Europa, in termini di “abbandono scolastico”.
In questo contesto, è quindi evidente che – per il lettore “medio” italiano – è (di norma) alquanto difficile saper distinguere tra una “fonte attendibile” e/o una “notizia” e una “frottola”; soprattutto quando si tratti di questioni di carattere specialistico che richiederebbero onestà intellettuale da parte dell’autore di turno.
Si spiega, così, il silenzio che spesso circonda anche i peggiori esempi di “cattiva informazione”; per ignoranza o, più frequentemente, semplice mala fede.
Erano queste le considerazioni che facevo dopo aver letto un breve servizio di Massimo Gramellini – ripreso dal sito web di Pietro Ichino – nel quale si riportava il caso di un avvocato svizzero, disoccupato, che aveva rifiutato un’offerta di lavoro da “spazzino”. Ne seguiva – attraverso un’evidente presa in giro del “laureato” indisponibile a svolgere tali mansioni – l’esaltazione di un’indennità di disoccupazione (svizzera) condizionata all’accettazione di qualsiasi tipo di offerta di lavoro.
La prima “bufala” era contenuta già nella presentazione dell’articolo; per opera del titolare del sito.
Ichino, infatti, si congratula con l’editorialista de “La Stampa” (7 ottobre c.a.) per aver rilevato che solo una rigorosa “condizionalità” dell’indennità, cioè l’obbligo, per il disoccupato, di accettare qualsiasi proposta di lavoro, “Può rappresentare il presupposto indispensabile per un trattamento come quello svizzero; molto più alto di quello che riusciamo a garantire in Italia”.
In effetti, stando al significato testuale di quanto afferma l’ex senatore Pd, la bufala consiste nel far credere ai nostri lettori che in Svizzera sia possibile offrire un’indennità molto più alta che quell’italiana solo perché è stata prevista la c.d. “condizionalità” al godimento del sostegno (pubblico) allo stato di disoccupazione.
Ne consegue quella che – a beneficio del nostro sprovveduto lettore – dovrebbe rappresentare la più logica delle considerazioni: “Evidentemente, se anche in Italia fosse possibile condizionare l’indennità di disoccupazione (cassa integrazione o mobilità) all’obbligo di accettare qualsiasi tipo di lavoro offerto, la misura della stessa potrebbe essere pari a livelli ben più alti”!
Non è vero. Non è così.
In Italia – fino ad appena pochi anni fa, culla di una Legislazione del lavoro attenta al rispetto dei diritti e delle tutele che, nel rapporto tra “le parti”, devono necessariamente essere garantiti al soggetto più “debole” – è già ampiamente prevista (tanto per la disoccupazione, quanto per la cassa integrazione e la mobilità) la “cancellazione” dalle anagrafiche e la perdita della relativa indennità per chi rifiutasse un’offerta di lavoro!
Il punto è che, nel nostro Paese – nel rispetto di un elementare senso di civiltà e di un altrettanto (minimo) rispetto della personalità di ciascuno – si è sempre ritenuto che dovesse trattarsi di un’offerta “congrua” al livello professionale (ed economico) del lavoratore.
A questo riguardo: attenzione. Non sono pochi coloro i quali, in modo assolutamente strumentale, tentano di affermare il (subdolo) principio secondo il quale: ”Un lavoro qualsiasi, a qualunque condizione, è preferibile alla disoccupazione”. Ciò è già stato ampiamente sperimentato e concretizzato; il diffuso stato di precarietà del nostro mercato del lavoro ne rappresenta la conseguenza più ovvia ed evidente.
Inoltre, nel rispetto della buona fede e dell’onestà intellettuale, andrebbe anche precisato che già oggi, in sostanza, l’ammontare dell’indennità di disoccupazione italiana è pari – in termini percentuali – a quella svizzera; l’80 per cento dell’ultimo stipendio o salario percepito.
Il problema è che, probabilmente, non lo sarà mai in termini assoluti!
Allo scopo, bisognerebbe prima pareggiare gli stipendi italiani a quelli della Svizzera e, contemporaneamente, eliminare quei “massimali” – che abbassano drasticamente la misura iniziale dell’80 per cento – oggi previsti dalle nostre norme.
O forse Ichino – oltre che sostenitore di una “condizionalità” senza alcuna eccezione – è anche disponibile a intraprendere una delle sue ormai classiche “crociate”, al fine di sostenere l’adeguamento dei salari italiani a quelli svizzeri?
Tornando alle cose serie. La seconda “bufala”, che produrrebbe soltanto ilarità, se l’autore non fosse pubblicamente “sponsorizzato” da Pietro Ichino, è presente già nell’esordio di Gramellini.
Infatti, riportare che l’indice di disoccupazione svizzero è pari al 2,6 per cento – in realtà, le statistiche ufficiali parlano del 3 per cento a ottobre 2014 – non significa, come erroneamente sostiene l’editorialista, che “Un disoccupato “locale” ha il 97,4 per cento di possibilità di trovare un lavoro o di permettere a lui di trovarti”!
“E che c’azzecca”? Direbbe Di Pietro.
E’ assolutamente ridicolo – per usare un benevolo eufemismo – immaginare che l’indice di “occupabilità” di un soggetto possa essere così dedotto.
Tra l’altro, in una condizione di sostanziale “piena occupazione”, uno svizzero in cerca di lavoro avrebbe – paradossalmente – più chance in Italia che non a Berna o Zurigo!
Non ritengo opportuno entrare nel merito dei contenuti dell’articolo: mi limito a una puntualizzazione e a porre una domanda.
La prima attiene al fatto che l’avvocato svizzero disoccupato non era più percettore dell’indennità di disoccupazione – già goduta nei (previsti) due anni precedenti – bensì di un altro tipo di “sostegno al reddito”; non previsto in Italia.
Pertanto, trattandosi di un tipo d’istituto che nulla ha a che vedere con l’indennità di disoccupazione, perché – se non strumentalmente – “mischiare le carte”?
La domanda: ma i due nostri prodi laureati, Gramellini e Ichino, sarebbero disponibili – se esistesse una pur labile possibilità che un giorno si ritrovassero senza lavoro – ad andare, rispettivamente, a fare lo “strillone” e a spazzare un tribunale o – addirittura, per il secondo – tornare in Cgil a Milano a fare l’usciere o la pulizia ai piani?
Per cortesia, non rispondano. Evitino di aggiungere ipocrisia a mala fede e superficialità di giudizio.
Renato Fioretti
Collaboratore redazionale del periodico Lavoro e Salute
19/10/2014
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