Diritto sancito da Costituzione. Inaccettabili attacchi di Damiano, Del Rio e Renzi
Ichino, il dittatore che odia gli scioperi
Uno che distrugge le istituzioni o la Costituzione dall’interno, conoscendone i meccanismi e gli equilibri, si chiama tecnicamente eversore. Ossia il contrario del sovversivo, del rivoluzionario che rovescia – o prova a farlo – l’ordine esistente per instaurarne puo diverso e più giusto. Dunque gli eversori sono intimamente reazionari, qualsaisi frasario adottino per meglio mascherare le proprie intenzioni. Manifestano insomma una mentalità golpista, in senso tecnico, perché vivono le istituzioni (di cui fanno parte integrante) come un impaccio per il dispiegamento della volontà propria. O, più di frequente, dei propri committenti. L’esempio classico è quello del golpe militare, con i generali e i colonnelli (parte integrante delle istituzioni, in funzione della loro difesa) che sostituiscono violentemente l’ordine costituzionale – sempre – per liberare le imprese dagli impacci del conflitto politico e sindacale, decurtando il profitto. Può avvenire su input interno o esterno (gli yankees sono storicamente maestri nell’ordinare golpe in casa d’altri), ma la radice classista è sempre la stessa: viva il libero mercato, abbasso la dittatura dei sindacati e della sinistra!
Con un linguaggio solo di pochissimo differente, Pietro Ichino si dedica da oltre 30 anni allo smantellamento sistematico delle tutele dei lavoratori, conquistate a prezzi durissimi in oltre venti anni di conflitto spesso anche sanguinoso (le varie polizie entrano in gioco, sparando, prima dei militari veri e propri). Lo fa con competenza tecnica notevole (è stato un giuslavorista della Cgil), accanimento eccezionale, falsificazionismo grossolano.
La sua ultima sortita, con un’intervista al Corriere della Sera, organo per eccellenza di quel che resta de “salotto buono” della grande imprenditoria nazionale, preannuncia un golpe contro il diritto di sciopero. A cominciare dai servizi pubblici. Sarebbe da stupidi credere all’argomentazione esibita (tutelare gli utenti dei servizi stessi), e quindi accettare una menomazione in un settore che salvaguardi tutti gli altri. Queste operazioni di revisione costituzionale – anche quando non presentate come tali – hanno effetto erga omnes, verso tutti i comparti del lavoro dipendente.
Chiaro anche l’obiettivo: impedire che gli scioperi siano addirittura proclamati, restringedo la titolarità ad indirlo alle sole organizzazioni “maggioritarie”. O, in seconda battuta, vincolandone la proclamazione ad un referendum preventivo tra tutti i lavoratori.
Questa seconda misura può sembrare tutto sommato “democratica”, ma sono se si accetta la finzione per cui siamo tutti formalmente uguali davanti a un voto. Nella realtà del lavoro quotidiano, anche e forse soprattutto nei servizi pubblici, le differenti mansioni e le corrispondenti differenze salariali creano livelli di conflittualità ovviamente disomogenee. Nella scuola, per esempio, può accadere che il personale tecnico-amministrativo abbia problemi differenti da quelli dei docenti e a maggior ragione dei presidi. Uno sciopero di questo personale può insomma avere motivazioni concretissime cui gli altri lavoratori della scuola sono tutto sommato estranei. Imporre che venga raggiunta una maggioranza tra tutti i lavoratori della scuola su uno sciopero riguardante soltanto gli Ata sarebbe di fatto un impedire la proclamazione dell’agitazione. Idem per il trasporto pubblico locale, dove autisti, operai della manutenzione e impiegati possono essere più o meno coinvolti a seconda del problema specifico.
Pericolosamente “di regime” la prima intenzione, quella di limitare il potere di indizioni ai soli sindacati “maggioritari” – in pratica a CgilCislUil – perché è evidente che una simile esclusiva tende a trasformare queste sigle in “sindacati di regime” riconosciuti come tali, proprio come il sindacato fascista dopo il “patto di Palazzo Vidoni” del 1925 («La Confederazione generale dell’industria riconosce nella Confederazione delle corporazioni fasciste e nelle Organizzazioni sue dipendenti la rappresentanza esclusiva delle maestranze lavoratrici”).
Una somiglianza che chiarisce di per sé il contenuto reazionario dell’operazione.
Tanto più che su tutto domina l’ostacolo posto dalla Costituzione repubblicana. La quale attribuisce al singolo lavoratore – e a nessuna organizzazione sindacale – l’esercizio del diritto di sciopero. La ragione di questa attribuzione è ovvia per chiunque abbia lavorato “sotto padrone”: ti devi poter difendere da pretese ingiuste dell’azienda anche se lì non è presente alcune sindacato (e ovviamente dovresti disporre, come prima che arrivasse Renzi, di una norma che impedisca al datore di lavoro di licenziarti perché scioperi; insomma, l’art. 18)…
Naturalmente, è sempre stato molto difficile per un singolo lavoratore decidere un’agitazione sindacale. Per questo sono nati i sindacati e, quando quelli storici si sono fatti “strumenti di concertazione”, ne sono nati altri, “di base”. Ma il diritto di sciopero resta in capo al singolo. Dunque, chi vuole “limitarlo” punta a una revisione costituzionale di fatto, magari senza toccare la Carta. Tanto, a impedire che sia un singolo a ribellarsi, bastano i banali rapporti di forza in azienda e la cancellazione dell’art. 18, no?
Tutto già noto e ampiamente scritto. Ma l’aspetto più infimo della retorica di Ichino sta nell’uso spudorato di parole ad effetto, tipo “contro la dittatura delle minoranze”. In effetti siamo tutti sottoposti da decenni a una dittatura delle minoranze. Alla dittatura di aziende guidate da pochissimi manager, di burocrazie europee e ministeriali politicamente non responsabili delle proprie azioni, di partiti politici che chiedono insistentemente di restringere l’area del consenso ai soli “pochi che sanno”. Li abbiamo sconfitti il 4 dicembre, ma stanno ancora lì. E ci proveranno finché campano…………
Alessandro Avvisato
20/6/2017 http://contropiano.org
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