Si potrà ancora scioperare?
Venerdì 16 giugno 2017, dalla pagina Facebook di Matteo Renzi: “L’ennesimo sciopero dei trasporti è uno scandalo. Fatto ancora una volta di venerdì. E proclamato da piccole sigle che utilizzano ancora una volta l’alibi della privatizzazione. A Firenze cinque anni fa abbiamo messo a gara il servizio e lo ha vinto un’azienda pubblica, le Ferrovie dello Stato. Si può fare di più, ma adesso lo gestiscono meglio che in passato. Anziché rincorrere tre funivie forse i romani preferirebbero avere un autobus regolare ogni cinque minuti: mettere a gara il servizio farebbe perdere i voti dei sindacati autonomi ma migliorerebbe la vita dei cittadini. E in questa stagione turistica così delicata: come si può lasciare a terra ancora una volta Alitalia? Il diritto di sciopero è sacrosanto e va garantito. Ma anche il diritto dei cittadini di non essere presi in giro: non è possibile che una miriade di piccole sigle paralizzi i venerdì delle nostre città.”
Dopo lo sciopero di venerdì 16 giugno è tutto un coro di voci contro l’irresponsabilità dei sindacati che hanno indetto l’agitazione, sul fatto che gli scioperi debbano essere ulteriormente regolati, e altre frottole varie. Non vengono menzionate le motivazioni dello sciopero, non si vuole far sapere che i lavoratori sono in agitazione per rilanciare il trasporto pubblico e la sua qualità, contro anni di politiche di tagli e privatizzazioni, altrimenti la narrazione dello sciopero immotivato contro i cittadini farebbe acqua da tutte le parti. Il lavoratore è dipinto come uno scioperato per definizione, uno che rinuncia al proprio salario giornaliero per farsi il “weekend lungo”. I problemi del paese non devono avere spazio sui media (si dovesse capire che chi ha governato per anni non ha risolto nulla!), la colpa di ciò che non funziona è ovviamente dei lavoratori. Ma perché tutta questa esagitazione? Lo sciopero deve aver colpito nel segno in quanto l’adesione è andata oltre le aspettative governative.
La reazione è un evidente attacco al diritto di sciopero. Un diritto, ricordiamolo, non dei sindacati ma dei lavoratori, come sancito dall’articolo 40 della Costituzione e dalle leggi che lo regolamentano. I sindacati hanno, semmai, il diritto di poter proclamare uno sciopero, ma il diritto di aderirvi o meno, di reputare valide le motivazioni di questo o quello sciopero, di giudicare le organizzazioni che indicono lo sciopero, spetta al lavoratore e non a Matteo Renzi o ad altri esponenti governativi e sindacali. La rappresentatività di un sindacato non ha nulla a che vedere con il diritto di proclamare o meno uno sciopero, il quale può essere indetto anche da comitati e assemblee di lavoratori, senza nessun intervento sindacale. Lo sciopero è un diritto individuale, che si esercita collettivamente, non è quindi appannaggio di questa o quella organizzazione sindacale.
L’articolo 39 della Costituzione non fa la minima menzione dello sciopero, ma piuttosto della possibilità per i sindacati di firmare contratti collettivi di lavoro. Ma firmare contratti collettivi di lavoro non è sufficiente a renderli operativi, in quanto l’organizzazione sindacale che firma un contratto deve avere un peso reale tra i lavoratori perché il contratto sottoscritto possa poi diventare effettivo. Gli altri sindacati contrari all’accordo possono opporsi e scioperare per farlo decadere. Come in ogni ambito della lotta di classe sono i rapporti di forza a determinare concretamente lo spostamento in una direzione o nell’altra. La rappresentatività di una organizzazione non può che misurarsi con il seguito che ha tra i lavoratori e con la reale capacità di mobilitarli. Limitare la facoltà di indire uno sciopero alle organizzazioni sindacali “più rappresentative”, è un chiaro attacco al diritto di sciopero.
Lo sciopero nei servizi essenziali, in cui rientrano i trasporti pubblici, siano essi gestiti da aziende private o pubbliche, è regolamentato già dalla legge 146/1990 e successive [1] e dagli accordi sindacali. Il tempo di preavviso minimo previsto è di 10 giorni, e può essere esteso dai relativi contratti di settore (è ad esempio di 15 giorni per la scuola). Devono essere garantite delle prestazioni essenziali, come le fasce di garanzia all’interno del settore dei trasporti, e non è possibile fare degli scioperi ad oltranza. Ciò ha impedito nella scuola di applicare forme di lotta più radicali ed incisive durante l’approvazione della legge 107, meglio nota come la “Buona scuola”, quando si è dovuto limitare lo sciopero degli scrutini a soli due giorni. Devono inoltre essere sempre previste delle procedure di raffreddamento e conciliazione e deve essere osservata una distanza tra uno sciopero e l’altro di un certo numero di giorni (la così detta “rarefazione oggettiva”). Numero di giorni che nella scuola è stato fissato a 7 [2]. Lo sciopero nei servizi essenziali è quindi fortemente regolamentato, introdurre ulteriori “lacci e laccioli” come propongono i pasdaran della regolamentazione, equivale nei fatti a limitare il diritto di sciopero fino alla sua progressiva scomparsa. Forse un domani, come durante la guerra o il fascismo, non sarà più possibile scioperare.
Uno schieramento di regolamentatori che va da ministro dei trasporti Delrio, al presidente della Commissione Lavoro del Senato Sacconi e al Garante Passarelli. Vediamo quali innovazioni vorrebbero introdurre i nostri esponenti governativi. Passarelli propone di limitare la possibilità di indire uno sciopero solo alle sigle con “una certa consistenza”. Con “una certa consistenza” di iscritti? O forse andrebbe inteso come strutture presenti su scala nazionale? Non è dato entrare nel pensiero del garante e dell’organo che presiede, la Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali, che dovrebbe avere posizione super-partes e che invece ha assunto sempre più posizioni filo-governative.
Il ministro Delrio propone, invece, di aumentare i tempi di preavviso per i sindacati “che non rappresentano il 50% dei lavoratori”, ovvero tutti i sindacati in ogni settore. Aggiunge inoltre che tale norma “è già prevista nel pubblico impiego”, evidentemente pensa ora che vada estesa anche al settore privato che fornisce servizi essenziali. Sorge allora un dubbio: ma se si devono garantire dei servizi essenziali è corretto demandarli ad un soggetto privato, che persegue per definizione i propri interessi e non quelli della collettività? E può una società per azioni soggetta alle regole del bilancio e del profitto erogare un servizio pubblico essenziale? Ricordiamo che per servizio pubblico essenziale si fa riferimento a “quelli volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione”. Servizi garantiti solo per coloro che hanno la facoltà economica di poterseli permettere.
Sacconi è titolare di una proposta in Parlamento che, oltre a recepire la proposta di limitare lo sciopero ai sindacati con una rappresentatività superiore al 50%, prevede un referendum preventivo tra i lavoratori per permettere o meno uno sciopero, un tempo “congruo” di anticipo per revocare uno sciopero e, soprattutto, la dichiarazione preventiva da parte dei lavoratori di adesione allo sciopero. La necessità di un referendum lascia molto perplessi, come se l’adesione o meno ad uno sciopero non sia già una chiara testimonianza dell’approvazione o meno delle ragioni dello sciopero da parte dei lavoratori. Ma è lo stesso giornale di Confindustria a dire tra le righe che il referendum tra i lavoratori non sa da fare né ora né mai: si darebbe “una tribuna ai sindacati più piccoli”, dovessero poi usarla bene. La dichiarazione anticipata di sciopero è invece una lesione completa del diritto di sciopero, essendo nei fatti possibile per l’azienda spostare i turni di lavoro in modo tale da assicurare il funzionamento operativo e da vanificare la riuscita dello sciopero stesso. A che servirebbe scioperare se nessuno se ne accorgesse non arrecando nessun danno alla produzione o al funzionamento del servizio?
Tutti sembrano concordare sul fatto che bisogna ridurre la possibilità di indire sciopero, eccetto che per i sindacati più rappresentativi. Andrebbe quindi definito in modo inequivocabile a quale criterio di rappresentatività di un sindacato ci si riferisce. Forse a quello di avere il maggior numero di iscritti? O a un numero di iscritti tale da superare una certa percentuale dei lavoratori complessivi? Oppure a quello di firmare i contratti proposti dal padrone? Ad oggi, l’idea che sembra essere prevalente nel legislatore è quella di organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. A tale concetto fa, ad esempio, riferimento il decreto legislativo 81/2015 del Jobs Act. Tuttavia è necessario evidenziare l’ambiguità di tale definizione, che da una parte sembra semplicemente dare valore all’aspetto quantitativo della rappresentanza sindacale dall’altro rimanda alla firma di eventuali contratti collettivi di lavoro, determinando una discriminante tra i soggetti che rappresentano i lavoratori, compiendo nei fatti una torsione neocorporativa della rappresentanza sindacale. Chi firma i contratti ha oggi la possibilità di esercitare la rappresentanza e, quindi, di avvalersi degli strumenti sindacali previsti dalla legge. Dovrebbe invece essere la capacità di un sindacato di mobilitare i lavoratori a determinarne la rappresentatività, nell’idea che il sindacato è un soggetto atto a confliggere con la propria controparte datoriale per strappare migliori condizioni di lavoro. E tra le diverse forme di conflitto è fuori di dubbio che la riuscita degli scioperi costituisce la migliore evidenza di questa capacità.
In questo contesto, le parole pronunciate dalla segretaria della CGIL Camusso appaiono infelici oltre che insufficienti. Sebbene difenda, a parole, il diritto di sciopero apre tuttavia alla legge sulla rappresentanza dei sindacati per “determinare chi ha rappresentanza e credibilità tra i lavoratori”, proprio quando è il governo ad invocarla. La CGIL pensa di imporre per legge ciò che è già definito dagli accordi di settore, ma non sempre rispettato dalla controparte padronale, che usa appoggiarsi a piccoli sindacati per far passare i così detti “contratti pirata” [4] in cui viene scambiato il riconoscimento di questi sindacati minori con vantaggi salariali e di organizzazione del lavoro per le imprese. Ma non si può imporre per legge ciò che non si riesce ad imporre con la forza della mobilitazione. Le leggi sul lavoro sono la cristallizzazione dei rapporti di forza che in un dato momento storico si sono determinati, e cambiano in base ai nuovi rapporti. Nelle parole della Camusso non vi è nessuna indicazione di una risposta concreta di lotta adeguata a controbilanciare l’offensiva padronale e governativa. La singola manifestazione con comizio finale non si può considerare tale dopo lo schiaffo subito con la reintroduzione dei voucher, né tantomeno le poche ore di sciopero fatte durante il governo Monti contro la Riforma Fornero delle pensioni. Non basta agitare un Rubicone da non attraversare, se poi non si prendono dei provvedimenti concreti quando viene superato. Questo chi fa sindacato lo dovrebbe sapere bene, come si dovrebbe ben sapere che il coltello piantato nel burro, non può che affondare.
Note:
[1] In particolare la legge 83/2000.
[2] La regolamentazione relativa alla scuola è consultabile qui.
[3] Legge del 12/06/1990 n° 146, pubblicata in G.U. il 14/06/1990
[4] Gli ultimi casi sono stati il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro dell’assistenza domiciliare agli anziani e quelli verificatesi nella vigilanza privata.
Marco Beccari
24/6/2017 hwww.lacittafutura.it
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