Il lavoro al tempo dei robot

lavoro teconologico

La robotica gode dell’appoggio pressoché incondizionato del governo, delle amministrazioni locali e dei maggiori gruppi industriali. In particolare il governo italiano, così come quelli tedesco, francese, olandese e britannico, ha varato il Piano nazionale Industria 4.0 al fine di “favorire gli investimenti per l’innovazione e per la competitività”.

Il termine “Industria 4.0” allude a una sorta di “quarta rivoluzione industriale” legata alla disponibilità di connessioni e a un impiego esteso di tecnologie informatiche, tali da interconnettere sistemi e automatizzare le produzioni. Il piano italiano “investe tutti gli aspetti del ciclo di vita delle imprese che vogliono aumentare competitività”, agevolando gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione (RS&I), sia con ingenti benefici finanziari che con azioni di supporto. Il tutto finanziato con la fiscalità generale, cioè soprattutto dai lavoratori dipendenti.

In Toscana, la Regione ha stanziato oltre 5 milioni di euro e il presidente della Piaggio Roberto Colaninno ha già annunciato di voler arrivare a oltre 40 milioni di euro in spese per l’automazione.

Il circolo di Rifondazione Comunista Karl Marx di Pontedera, per discutere di questi problemi, ha avviato un percorso di riflessione e di elaborazione di proposte politiche. Il primo appuntamento di questo percorso è stato l’evento del 23 giugno dal titolo “Industria 4.0 – il lavoro al tempo dei robot”.

Macchine e robot – afferma il Prc nell’avviso di convocazione – non mangiano, non chiedono ferie, hanno un costo iniziale noto a chi investe e che si può tranquillamente ammortizzare”. Sono ben spesi i soldi alle imprese per l’automazione? Quali effetti avranno sull’occupazione e sulla vita dei lavoratori? “Il nuovo paradigma di industria 4.0 – prosegue la nota – potrebbe sfociare nel paradosso per cui lavoratrici e lavoratori con le loro tasse… finanziano il proprio licenziamento”.

Ha coordinato i lavori Paolo Sarti, consigliere di “Sì Toscana a Sinistra”.

La prima relazione è stata quella di Simone d’Alessandro, economista dell’Università di PISA. Esordendo con un video ha mostrato come le tecnologie cambiano la nostra vita quotidiana e come il loro impiego consenta di sfruttare perfino le attività del tempo libero, catturando preziose informazioni personali. Grazie a questi nuovi dispositivi, dal punto di vista economico tutti siamo produttori, quantomeno di informazioni. Dopo aver sommariamente illustrato i diversi approcci al progresso tecnologico da parte degli economisti classici (ci è parso di capire che abbia accomunato in questa categoria sia i classici veri e propri che i cosiddetti neoclassici, come è consuetudine in certi ambiti accademici), secondo cui la disoccupazione inizialmente provocata è destinata ad essere riassorbita in tempi ragionevoli, e i Keynesiani, secondo cui è invece necessaria una redistribuzione di redditi e orari di lavoro per tale riassorbimento.

Dato che le macchine sono in grado di gestire da sé i processi, riducendo il contributo del lavoro, è destinata adiminuire drasticamente l’occupazione e anche, significativamente, la quota del salario sul prodotto,aumentando le disuguaglianze a tutti i livelli. La sua simpatia per i keynesiani emerge dall proposte: il problema di fondo è redistributivo. Manifestando contrarietà alla detassazione, definita “assurda”, ha avallato invece il noto suggerimento di Bill Gates di tassare i robot per finanziare interventi di sollievo alla disoccupazione.

Il relatore ha dedicato l’analisi anche alla collocazione dell’Italia nella divisione del lavoro in ambito europeo. Pur essendo il nostro paese, insieme alla Germania, fra quelli in cui è maggiore l’incidenza del manifatturiero, patisce, a differenza del colosso tedesco, di una troppo ridotta percentuale di lavoratori addetti ai settori tecnologicamente avanzati e quindi non è in grado di affrontare agevolmente le trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie.

È intervenuta quindi Roberta Fantozzi, della segreteria nazionale Prc la quale, nell’aver sottolineato il fortissimo sviluppo della produttività nell’industria nel nostro paese dal dopoguerra fino ai giorni nostri, ha asserito che, tuttavia, oggi le società crescono sempre meno, sia nei paesi più sviluppati dell’Ocse, sia nella stessa Cina. Lo sbocco delle merci è sempre più difficile e tutti cercano di compensare le difficoltà interne con le esportazioni esasperando la competizione. Nella stessa Germania, ben piazzata nella competizione, ci sonoforme barbariche di sfruttamento. L’Italia, seconda nazione manifatturiera dell’Unione Europea, è spinta verso il basso nella divisione internazionale del lavoro. Spendiamo meno in tecnologie e sviluppo.

L’intervento del governo, che elargisce soldi per introdurre automazione, non è un intervento valido di politica industriale perché le tecnologie che verranno introdotte grazie a questi incentivi saranno acquistate all’estero, dato che noi non siamo in grado di produrle. Una vera politica industriale deve invece porsi il problema di realizzare produzioni tecnologicamente avanzate, investendo nel comparto del risparmio energetico, delle energie alternative, dell’ambiente, ecc. dove attualmente compriamo tutto dall’estero. Deve anche essere invertita la tendenza a fare della ricerca di base la cenerentola delle nostra attenzioni.

Il piano governativo prevede che per ogni investimento di 1 milione ci siano riduzioni di prelievo fiscale di 350 mila euro. I soli 40 milioni di euro di investimenti indicati da di Colaninno danno pertanto 14 milioni di riduzione di imposte.

Dopo aver affermato che la soluzione alla disoccupazione tecnologica è la riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, ha proposto che una quota di risorse pubbliche di entità commisurabile a quelle date alle imprese per l’innovazione, venga utilizzata per rendere possibile questa riduzione, compensando la perdita di ore di lavoro retribuite. Infatti al Cassa Integrazione Guadagni copre solo il 60 per cento del salario perduto. Se viene attivato il contratto di solidarietà difensivo senza crisi aziendale, si annulla anche questa copertura. È evidente che nessun lavoratore accetterebbe questa riduzione salariale. La riduzione dell’orario di lavoro deve essere invece a parità di salario.

Si potrebbe intanto partire con una sperimentazione, facendo intervenire anche la Regione e dando per esempio a Colaninno i 14 milioni di sgravi solo se davvero si attiva il finanziamento della riduzione di orario – che, essendo coperto dal pubblico, non incide sulla competitività dell’azienda. Ancora più agevole sarebbe la fattibilità di simili misure se le si attuassero su scala europea.

Proponiamo quindi un piano del lavoro, un’azione organica per uscire dalle politiche di questi ultimi anni, per rovesciare una situazione e mettere in discussione le politiche europee e la follia del fiscal compact. Anche all’interno dei vincoli esistenti, che pure vogliamo scardinare, possiamo finanziare gli interventi conl’introduzione dell’imposta patrimoniale, con il ripristino di una maggiore progressività delle imposte, con una vera lotta all’evasione.

L’ultima relazione è stata di Tommaso Fattori, presidente gruppo regionale “Sì Toscana a Sinistra”, sostenuto anche da Rifondazione, il quale ha escluso che i paradigmi del passato possano aiutarci in questa nuova situazione, visti i salti incommensurabili fra la classica meccanizzazione e l’odierna intelligenza artificiale. I processi in atto si governano mettendo a disposizione della collettività la ricchezza prodotta dalle macchine, mettendo al centro la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. La quarta rivoluzione produrrà plusvalore, profitti, ricchezza. Chi se ne appropria non vorrà redistribuire gratis et amore dei, volontariamente. Spetta a noi costruire la società a bassa intensità di lavoro, invertire la tendenza del capitalismo a polarizzare la ricchezza.

Se il digitale decuplica i profitti, dobbiamo trovare forme efficaci per tassare tutti i patrimoni e tutti i profitti, anche quelli della multinazionali che fin qui non stanno pagando le tasse. Fattori non considera contrapposte le strategie della riduzione di orario e quella di salario minimo garantito.

Le prime macchine sostituivano i cavalli, oggi sostituiscono anche il lavoro cognitivo, estendendo tendenzialmente a tutti gli ambiti il processo di sostituzione del lavoro vivo col lavoro morto. Occorre almeno ridurre l’orario di lavoro, prendere la ricchezza dov’è, cambiare i rapporti di forza fra le classi.

Attualmente la Piaggio assembla pezzi fatti altrove. Col paradigma 4.0 potrebbe reinternalizzare, ma non aumentando l’occupazione, bensì facendo fare tutto ai robot che costano meno dei lavoratori sottopagati del terzo mondo.

È evidente l’impatto sulle vite individuali. I vecchi lavoratori possono essere mandati a casa assumendo ragazzi che hanno dimestichezza con le tecnologie e costano meno. Accanto a loro continueranno a esistere i raccoglitori di pomodori, i lavoratori dei subappalti e altre categorie sottopagate. La politica deve porsi nella complessità di questo tema.

Non possiamo permettere che anche la logistica venga automatizzata con i nostri soldi. Dobbiamo prevenire il danno complessivo all’occupazione e al welfare, dare qualche piccola risposta, inserire qualche granello di sabbia nel meccanismo. Per esempio abbiamo depositato una nostra proposta di legge regionale per finalizzare i finanziamenti, mettere dei paletti, impedire i comportamenti predatori. Fin qui la politica non è stata capace di attivare i contrappesi di un processo non ineluttabile.

Si è aperto quindi il dibattito che ha visto fra l’altro l’intervento di Sandro Giacomelli, delegato Cobas alla DNA, azienda che gestisce in subappalto la logistica della Piaggio, il quale è stato licenziato per motivi politici circa una anno e mezzo fa. Egli ha annunciato che in sede di gara per l’imminente rinnovo dell’appalto sono stati programmati altri 80 esuberi, mentre la politica è dormiente e non interviene in questi processi.

Molto applaudito è stato l’intervento di Andrea Corti, della segreteria provinciale del Prc, il quale ha denunciato alcune dichiarazioni del Prof. Paolo Dario della Scuola Superiore Sant’Anna, che se corrispondenti alle trascrizioni giornalistiche, enfatizzano l’introduzione della robotica anche per rendere più puliti gli ambienti di lavoro. Come a dire che se gli operai sporcano troppo, meglio i robot!

La sua formazione di docente, come quella dell’altro suo collega intervistato, gli ha impedito di intuire le questioni sociali e del mondo del lavoro che potrebbero essere determinate da questo “cambiamento epocale”. Se è auspicabile la necessità di figure altamente professionalizzate, si dovrebbero considerare anche gli effetti a carico degli “esclusi” dalla nuova “rivoluzione industriale” targata Industria 4.0. Essa è già in atto e tale sviluppo tecnologico non è stato di tanto aiuto per le classi lavoratrici. Sembra invece aver prodotto una ulteriore e intollerabile divaricazione tra gli stessi lavoratori. Una dicotomia tra pochi fortunati altamente remunerati in grado di svolgere mansioni altrettanto soddisfacenti e una massa di lavoratori e lavoratrici sottopagati, costretti a lavori usuranti, accanto ad una platea immensa di disoccupati e “saltuari”. Ricordiamo gli immigrati che a pochi euro il giorno lavorano nei campi di pomodori, o le lavoratrici e i lavoratori degli appalti dei servizi, o chi, in conseguenza della perdita del proprio posto di lavoro, è costretto alla diffusione porta a porta di materiale pubblicitario con il solo ausilio di un poco tecnologico carrellino per la spesa.

Siamo comunisti – ha concluso Corti – e per questo vorremmo che la politica assuma anche aspetti ideologici, che l’utilizzo delle ingenti risorse pubbliche che passeranno attraverso i programmi di Industria 4.0 siano almeno subordinate a una valutazione delle ricadute socio-economiche sui territori e sulle nuove e vecchie disuguaglianze”.

Nelle conclusioni, Roberta Fantozzi ha ribadito che il nostro fare deve essere innervato dall’idea che la crisi non è il prodotto di una scarsità, ma dalla necessità di redistribuire il prodotto del lavoro. Ha quindi proposto:

– un osservatorio permanente a livello generale per lo studio dell’impatto delle tecnologie,

– un esperimento di riduzione dell’orario di lavoro partendo dai contratti di solidarietà e con la compensazione con soldi pubblici delle perdite salariali,

vertenze a livello locale e unificazione delle diverse figure del lavoro,

rimettere in campo i referendum sull’articolo 18 e sulla legge Fornero.

I soldi ci sono, non devono essere impiegati per licenziare.

Fin qui abbiamo cercato di riportare più fedelmente possibile il dibattito. Vorremmo brevemente concludere riferendo la presenza di questo giornale all’iniziativa con una modestissima tiratura di una rassegna di articoli sull’argomento, andata presto esaurita e che i compagni pisani di Rifondazione hanno promesso di ristampare per diffonderla alla loro festa provinciale. Alcuni articoli riportati contestavano il mito della fine del lavoro, sottolineando come il lavoro sia ancora, a differenza della macchina e dei robot, l’elemento attivo del processo produttivo e della creazione di valore e come il processo tecnologico comporti una caduta del saggio generale del profitto, generando una contraddizione fra la tendenza a risparmiare lavoro e la necessità di sfruttare il lavoro stesso, unica fonte dei profitti. Da qui anche la spiegazione del perché all’automazione dei processi produttivi non è seguita la riduzione dell’orario di lavoro. In sostanza la quarta rivoluzione industriale non cancella i limiti e le contraddizioni del capitalismo. La lente di Marx, ci pare quindi sia ancora utile per leggere i processi in corso e ci è dispiaciuto che sia stata la grande assente del dibattito, fatti salvi alcuni spunti ad essa ammiccanti.

Arturo Bernardeschi

1/7/2017 www.lacittafutura.it

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