Dopo Tallinn, una modesta proposta
Di «invasione» abbiamo poche tracce, se guardiamo ai dati. I primi sei mesi del 2017 hanno registrato un incremento del 18% delle persone sbarcate, rispetto allo stesso periodo del 2016. Secondo i dati del Cruscotto statistico del Viminale, aggiornati al 28 giugno e dunque esattamente a metà anno, i migranti sbarcati in Italia nel 2017 sono stati 76.873; nello stesso periodo del 2016 erano stati 67.773. In tutto il 2016 sono arrivate 181.436 persone, nei primi sei mesi del 2017 ne sono arrivate 76.873: secondo una proiezione statistica, a fine 2017 saranno 153.746 persone (27.690 in meno che nel 2016).
Certo, si tratta di cifre consistenti, ma parlare di fenomeno «insostenibile» significa mistificare la realtà: è noto che gli sbarchi seguono andamenti congiunturali, legati alle condizioni dei mari, all’accessibilità delle rotte in determinati periodi, alle scelte dei trafficanti. Un incremento di qualche migliaio di persone in più in una stagione calda, in condizioni meteo favorevoli, può non significare nulla.
Il tema della solidarietà europea è certo reale, e più scottante. Non c’è dubbio che la rotta del Mediterraneo centrale – quella che dalla Libia arriva alla Sicilia – sia oggi quella più interessata dagli sbarchi, e che dunque l’Italia sia più esposta al fenomeno rispetto ad altri paesi. Come noto, esiste una normativa europea che molti commentatori chiamano erroneamente “Convenzione di Dublino”; non si tratta però di una convenzione internazionale, cioè di un semplice accordo tra Stati, ma di un Regolamento Europeo, che è un atto giuridicamente molto più vincolante: una vera e propria legge, che tutti i paesi UE hanno l’obbligo di attuare.
Ebbene, questo Regolamento stabilisce che il primo paese di arrivo è quello competente sulla procedura di protezione internazionale. Significa, detto in termini non tecnici, che chi sbarca in Italia deve rimanerci almeno fino alla decisione definitiva sulla domanda di asilo. Molti stranieri vorrebbero andare in Germania, in Francia e in altre aree del Nord Europa, ma non possono farlo: il fatto di essere sbarcati in Sicilia li obbliga a rimanere in Italia. È una norma che impedisce la libertà di movimento dei migranti e che ostacola una equa ripartizione degli oneri dell’accoglienza tra i diversi Stati: ha ragione, dunque, chi chiede di riformare il Regolamento Dublino, e sarebbe stata del tutto legittima una richiesta in tal senso da parte del governo italiano.
Il Governo italiano, peraltro, potrebbe anche richiedere l’applicazione di una norma europea già in vigore. Anche lasciando invariato il Regolamento Dublino, infatti, sarebbe possibile dare attuazione alla Direttiva 2001/55/CE, che prevede «l’equilibrio degli sforzi tra gli stati membri» in caso di «afflusso massiccio di profughi».
Al vertice di Tallin l’Italia sembra aver fatto la voce grossa con i partner dell’UE minacciando di limitare le attività di salvataggio in mare compiute dalle ONG. Ma lasciar morire i migranti – perché questo significa, essenzialmente, “limitare le attività delle ONG” – dovrebbe spingere a più miti consigli paesi come la Francia, la Germania o la Spagna?
Cosa potrebbe fare l’Italia
L’Italia avrebbe due strumenti efficacissimi, e a portata di mano, per costringere gli Stati membri dell’Unione a rinegoziare il Regolamento Dublino, anche se in questi giorni nessuno degli uomini di governo ne ha fatto cenno.
Il primo strumento si chiama identificazione. Con il Regolamento Dublino, i migranti sono obbligati a rimanere nel paese in cui sono sbarcati. Ma per obbligarli davvero a rimanere bisogna identificarli, prendere loro le impronte al momento dell’arrivo, e registrare i loro dati nei database europei. Se un migrante non viene identificato al momento dello sbarco, può andarsene dall’Italia, entrare in Francia o in Germania e lì chiedere asilo: nessuno potrà mai sapere dove è sbarcato, quale è il paese di primo arrivo. Ebbene, perché l’Italia, semplicemente, non sospende le identificazioni alla frontiera? Perché non consente agli immigrati di raggiungere altri paesi europei? Perché, di fronte allo schiaffo ricevuto dagli altri leader UE, il governo italiano continua scrupolosamente a prendere le impronte?
Il secondo strumento riguarda i migranti che, al termine della procedura di asilo, sono stati riconosciuti come rifugiati, o come beneficiari di protezione. In teoria, se la procedura si è conclusa positivamente, lo straniero può andare in altri paesi europei: ma per farlo deve avere il passaporto, e chi ha chiesto asilo spesso non ha un passaporto. L’Italia può rilasciare un documento sostitutivo che si chiama “titolo di viaggio”, con il quale è possibile attraversare le frontiere (sia pure soltanto per soggiorni di breve durata).
E qui viene il punto. Il nostro paese non rilascia i titoli di viaggio a tutti. Li fornisce solo a chi ha lo “status di rifugiato”, che è solo una delle tre forme di “protezione” riconosciute dalla legge, quella riservata a chi ha un “fondato timore di persecuzione”. Chi ha ottenuto le altre due forme di protezione – la “protezione sussidiaria” e la “protezione umanitaria” – di solito non riesce ad avere il titolo di viaggio, e dunque è costretto a restare in Italia.
Perché allora il governo non ordina alle Questure di dare il titolo di viaggio a tutti coloro che hanno ottenuto una forma di protezione? In questo modo, sarebbero migliaia gli stranieri che potrebbero liberamente andare in altri paesi europei.
Ecco, se l’Italia facesse queste due semplicissime cose, vanificherebbe gran parte degli effetti del Regolamento Dublino. Non sarebbe più il principale paese europeo di accoglienza. E costringerebbe i partner europei a negoziare. È una strada semplice e a portata di mano, che il Governo non ha nemmeno ipotizzato. Forse perché è più facile gridare all’invasione. Si strizza l’occhio a una parte dell’opinione pubblica, e non si toccano interessi consolidati. E perché i migranti sono diventati una moneta di scambio, un dividendo economico, politico e geostrategico.
ADIF – Associazione Diritti e Frontiere
6/7/2017 www.a-dif.org
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