Avevano ragione i bulloni!
Sono passati 25 anni dall’abolizione della scala mobile, quel meccanismo di indicizzazione che permetteva l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione. Fu cancellata definitivamente dal protocollo del 31 luglio 1992, firmato a Palazzo Chigi dal governo Amato, i tre sindacati confederali e la Confindustria. Fu il primo di una lunga serie di accordi di concertazione, che nel corso degli anni 90 aprirono la strada a un peggioramento complessivo delle condizioni salariali e contrattuali dei lavoratori e delle lavoratrici.
Dopo 25 anni il bilancio è semplicemente disastroso. Anche se, ironia della sorte, il cerchio si chiude con la reintroduzione di un sistema di calcolo dei salari molto simile a quel meccanismo, la cui abolizione diede inizio a questa lunga serie di sconfitte. Infatti, in un contesto per certi versi opposto a quello di allora, con un’inflazione ormai prossima allo zero, il contratto nazionale dei metalmeccanici ha reintrodotto in via sperimentale una sorta di scala mobile alla rovescia, con aumenti solamente e strettamente legati all’IPCA (inflazione reale depurato dai prezzi dei carburanti), tanto da determinare un aumento in busta paga di appena 1,7 euro lordi al mese.
Un sistema perverso, viste le condizioni, ben lontano nei fatti da quello che negli anni 80 i padroni e il governo fecero di tutto per abolire e i sindacati troppo poco per difendere. Un sistema funzionale, come l’accordo del ’92, a tener fermi i salari nominali e fare quindi diminuire quelli reali.
Un meccanismo, peraltro, che rischia di fare da modello a tutte le altre categorie, in un quadro complessivo in cui viene il dubbio che il contratto nazionale sia davvero ancora quello strumento solidaristico e universale di difesa dei salari e delle condizioni di lavoro che storicamente è stato. A guardare la stagione degli ultimi rinnovi contrattuali, quelli firmati tra il 2015 e il 2017 per oltre 10 milioni di lavoratori e lavoratrici, sembra, infatti, sia servito più alle controparti che ai lavoratori.
Complessivamente, nessuno dei contratti nazionali firmati è riuscito a difendere i salari e il potere d’acquisto.
Non ci sono riusciti i contratti nazionali a tre cifre, come quello degli alimentaristi (105 euro, ma in 4 anni e con un anno di moratoria sui contratti aziendali) o degli assicurativi (103 euro, ma con un ritardo di 3 anni sul rinnovo). Né quello dei chimici, firmato a fine 2015, prima della scadenza e dopo poche ore di trattativa, con 90 euro in 3 anni, già però in parte restituite: poche settimane fa, padroni e sindacati hanno stabilito, infatti, che dal 1 gennaio i prossimi aumenti non saranno quelli concordati di 35 euro mensili, ma ben 22 euro in meno.
Tanto meno ci è riuscito il contratto del terziario, che, al netto dell’introduzione del salario di ingresso per i nuovi assunti e del sottoinquadramento degli informatici, aveva portato a casa 85 euro in 2 anni e mezzo, già congelati anche questi nella busta paga di novembre 2016, con la sospensione della terza tranche. E ancor meno il contratto nazionale dell’igiene ambientale, con 90 euro in 4 anni ma a fronte dell’aumento dell’orario di lavoro. Quasi una restituzione. Per non parlare degli ultimi contratti firmati, tutti ormai attestati su 4 anni e calcolati sull’inflazione IPCA ex post. Tra questi, i 70 euro dei tessili sembrano persino tanti, rispetto a 1,7 euro dei metalmeccanici.
Uno scambio senza contropartita, insomma, con l’aggravante di aver ceduto quasi ovunque maggiore flessibilità della prestazione lavorativa e a volte un aumento vero e proprio dell’orario di lavoro. E aver introdotto sempre più il welfare privato, a danno di una più generale visione universale dei diritti e dello stato sociale.
Quasi ovunque, infatti, pur di tenere bassi i salari, le controparti hanno concesso aumenti sulle quote della previdenza e della sanità integrativa, rendendola in alcuni casi obbligatoria. Nel contratto dei chimici, l’aumento sul fondo pensione ha persino portato all’abolizione di una giornata di riposo. Per non dire dei metalmeccanici che hanno sdoganato persino i buoni carrello al posto del salario.
D’altra parte, si sta discutendo di welfare contrattuale anche per il rinnovo in corso del settore pubblico, cioè per quei lavoratori e quelle lavoratrici impiegati proprio nella sanità e nel welfare pubblico. Un po’ come chi taglia il ramo sul quale è seduto.
Non solo. Le direttive recentemente varate dal Ministero dell’Economia e della Finanza per il rinnovo dei contratti pubblici, rimettono in discussione persino la pre-intesa del 30 novembre 2016, quella che a pochi giorni dal referendum costituzionale prometteva un non meglio precisato futuro aumento di 85 euro medi.
Il documento del MEF non dà infatti alcuna garanzia che i futuri aumenti non comportino la perdita del bonus di 80 euro del 2014, né tanto meno che essi siano inseriti sul salario tabellare (prevedendo quindi una loro destinazione anche al salario accessorio, distribuito in modo significativamente differenziato tra lavoratori e lavoratrici). Tutto questo dopo 7 anni di blocco del contratto (si calcola che i lavoratori e le lavoratrici dei settori pubblici abbiano perso in questi anni almeno 250/300 euro di stipendio mensile). Senza dimenticare che la recentissima riforma Madia, che ha peggiorato addirittura il Testo Unico e la legge Brunetta, ha rafforzato il potere discrezionale delle amministrazioni, confermato la distribuzione differenziale del salario accessorio legata alla valutazione e introdotto persino il licenziamento per scarso rendimento.
Insomma, una stagione contrattuale a rendere, che chiude il bilancio amaro di questi lunghi 25 anni, dal 31 luglio 1992 a oggi. A distanza di tanto tempo, si può ben dire che i bulloni di allora, simbolo di un sindacato ancora conflittuale e battagliero, non riuscirono a fermare questo processo. Ma di sicuro avevano ragione!
Eliana Como
30/7/2017 www.lacittafutura.it
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