monologo di un etilista
Consumarono il giorno a bere, a scambiare carezze, finché Giusi decise di raggiungere la sua postazione “Professò, ti è andata bene. Hai ricevuto più baci di quel che meritavi. Adesso devo andare, sono già le dieci. Io ho troppi guai per rinunciare al lavoro”. Baciò lo sposo sulle labbra e uscì di scena, in meno di poco.
Renato rispose al saluto, senza chiedere altro. Preferiva non intaccare viali concomitanti con il passato, viali e storie che avrebbero potuto metterla in crisi. Fissò la porta appena chiusa e intraprese un personale dibattito con essa “neanche sei stata capace di fermarla, del resto servi a fare entrare e uscire, meglio le finestre di te. Per uscire da una finestra bisogna buttarsi di sotto, dalla porta basta aprire e fine. Tutto finito!”
Sere come quella nascevano per finire tardi, a volte fin troppo tardi e Renato lo sapeva, per cui gli sembrò logico alzarsi e usufruire della porta, tanto odiata.
Si diresse spedito verso il bar, a quell’ora c’era sempre qualcuno a svernare la sbronza o a tirarla ancora. Fuori incontrò il solito Romeo, sempre più sbronzo, sempre più amaro “Professò, hai sentito come la chiamano adesso? La guerra tra poveri. Si, proprio così, la guerra tra poveri e i poveri siamo noi. Non ti sembra strano? Mai che dicessero che prima c’è stata la guerra del ricco contro il povero. Si sono impadroniti delle terre e degli alberi e ci hanno fatto diventa’ schiavi. Adesso è facile farci fare la guerra, basta gridare forza inter, juve, forza pasqua e forza natale e già si fanne le guerre. Che cazzo ci vuole a farci mettere contro? Basta che un giornale dici na strunzate su cacchirune e nasce il caso, nasce il mostro e nasce il bambinello n’atra vote!”
“Dovevi diventare Presidente della Repubblica tu, Romeo! Io, invece, sono sempre stato una marionetta. Ogni qualvolta ho creduto di non essere più una marionetta, mi sono ritrovato in ginocchio, perché s’erano consumati i fili e capivo un solo verso. Ci vorrebbe un popolo assetato di sangue blu, per mantenerci in piedi, amico mio. Vieni a tenermi compagnia per un bicchiere, dai..”
Romeo accettò l’invito. Nel bar c’era un bel po’ di giro: Elena e il suo corpo in mostra, Enzo l’avvocato, Michele lo spazzino, gli ordinari, i graduati e i tatuati. Alla vista del maestro, Daniele chinò il capo “benvenuto professo’, adesso siamo proprio al completo. Andiamo con un rosso?”
Invece Romeo diede un altro colpo di whisky al fegato, tutto d’un fiato, alla calata e rintanò in un’altra verità “lavoro agli italiani, ma quando gli italiani vanno a fare benzina scelgono di servirsi da soli, invece di farsi servire, per risparmiare qualche euro. Il benzinaio è un altro lavoro che, prima o poi, finirà proprio per colpa di quelli che dicono lavoro agli italiani… ma vaffanculo”. Renato si guardò bene intorno e chiese il bis, subito dopo il tris, finchè si avvicinò Enzo l’avvocato. “Professore emerito, non l’ho più vista da queste parti a tarda ora, sa?”
Renato rispose a tono “sa, ci sono anche altri sollievi oltre al bicchiere”.
“Certo, certo!” replicò l’avvocato “magari una donna poco pulita, ma con una sua morale, certa, trasparente, avvenente e amabile, vero professò?”
“Certo, certo! Conta molto la bellezza d’animo, a me basta, caro avvocato”. Sciolse il sorriso beffardo, per un grugno più serioso e delimitò il confine “vorrei che lasciassi fuori dai giochi la mia Giusi, però”.
Enzò alzò le mani e s’intromise con più cautela “Professò, non mi permetterei mai di citare la tua Giusi. Io ho avuto un’esperienza simile. Alla fine l’ho abbandonata di notte. Io sono un pessimo, caro professore. Ci vorrebbe un dio a parte solo per confessare tutti i miei peccati, anzi mi vergogno a conoscere quelli degli altri”. Daniele si addentrò alla disputa, versando da bere e ripetendo il vecchio detto “a chi non piace la patonza e il vino, morirà a primo mattino”. Renato abbandonò il banco e portò il suo bicchiere al tavolo. Intorno la baldoria assunse nuovi sostenitori e giovani rigogliosi, tutti dentro il bar. Massimo, l’amico immaginario, si presentò vestito in giacca e cravatta, deciso a prendersi gioco dell’etilista sfatto “stai bene in mezzo a questa massa di ubriaconi. Qui non devi rendere conto dei tuoi fallimenti, non devi dimostrare. Racconta di quando nelle bande armate ammetteste ribelli sfasati, gente che voleva dimostrare di avere le palle, invece tradirono tutti”.
Renato impigliò lo sguardo allo specchio davanti e rispose puntando il dito “eravate voi anarchici a credervi migliori, a darvi per vincitori quando vi batostavano. Voi senza fissa dimora per gli ideali, eravate semplici italiani allo sbaraglio, non rivoluzionari”.
“Abbiamo smosso una situazione ristagnante, voi stavate sempre sotto il padronato dei partiti già compromessi, il resto è solo rigurgito. Il fallimento ha pochi padri e di solito sono morti giovani, vero Professò?”
“Io volevo quel che vogliono i sognatori e, come sempre, nel corso della storia, i sognatori perdono. Mi pongo ancora mille quesiti, del resto gli uomini banali non si fanno mai troppe domande, sai perché? Perché nemmeno saprebbero darsi delle mediocri risposte”.
Antonio Recanatini
Poeta, scrittore. La sua poesia è atta a risollevare il sentimento della periferia, all’orgoglio di essere proletari e anticonformisti. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
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