La finta scoperta della corruzione universitaria

La finta scoperta della corruzione universitaria

Dopo il chiassoso ed inutile battage suscitato dallo sciopero dei docenti universitari – una categoria che non sciopera mai, ligia ai suoi doveri verso lo Stato – ecco un nuovo clamore stimolato dalla denuncia di un ricercatore che sarebbe stato invitato a ritirarsi da un concorso per cedere il passo a un suo collega più vicino ai commissari. Concorso nel quale sarebbe coinvolto anche un ex-ministro. Si potrebbe dire anche in questo caso “tanto rumore per nulla”, giacché tutti sanno, anche fuori del mondo universitario, che il criterio che regge il reclutamento e quello del passaggio da un livello all’altro della carriera universitaria è quello della cooptazione personale. D’altra parte, – ciò viene taciuto – si tratta di meccanismi estesi a tutte le istituzioni in una società capitalistica e non è soltanto un vizio italiano; affermazione con cui si vuole ribadire che il sistema in sé funziona, sono gli italiani che cercano sempre di fare i furbi. Così, “l’America” sarebbe il luogo in cui la meritocrazia effettivamente è rispettata, dove se tu vali, se sei “talentuoso” hai successo e fai carriera. Tale mito è così radicato che ci sono ancora quelli che, nonostante tutto, parlano di “sogno americano” e chiamano gli emigrati deportati da Obama e che saranno scacciati da Trump dreamers.

Come il principio della cooptazione sia invece il pilastro regolatore in tutte le sfere, in cui si tratta di partecipare a una qualche forma di potere o di spartirlo, basti soffermarsi sulla composizione della “squadra” di governo messa su da Trump, che potrebbe tranquillamente essere accusato di familismo amorale, ossia di anteporre gli interessi dei suoi parenti e amici a quelli della collettività. Comportamento che negli anni ‘50 alcuni studiosi statunitensi attribuivano ai nostri meridionali e da cui sarebbe scaturita la mafia.

Questo procedimento con il quale si separa un presunto fatto criminoso da altri consimili che si verificano in altre sfere della società ha un ben preciso scopo ideologico: non mettere in discussione il sistema complessivo e additare all’obbrobrio l’eventuale mela marcia (riferimento trito e ritrito), ribadendo che tutte le altre mele sono saporose e commestibili.

Ora, anche ammesso che l’università sia corrotta, ciò non costituisce in nessun modo una novità; ed infatti, notizie di denunce e di ricorsi contro l’esito di certi concorsi sono assai frequenti, ma c’è di più: è lo stesso sistema che favorisce e implementa la corruzione che si vuole rendere ancora più manipolabile dal potere accademico proponendo ancora una volta – come in questi ultimi decenni – una soluzione “all’americana”. Quest’ultima è identificata con assunzioni libere, più “trasparenti”, che rispettino le esigenze dei diversi atenei, i quali automaticamente diverrebbero responsabili delle scelte fatte, pagandone le conseguenze con ipotizzate ma mai praticate penalizzazioni. Come è ovvio, ciò ha comportato e comporta la deregolamentazione e quindi lo sprofondare nel mondo della jungla.

Direi che, molto probabilmente, il clamore suscitato dal nuovo episodio di corruzione universitaria, ha proprio l’obiettivo di favorire questa ulteriore svolta già avviata da tempo, gettando un velo oscuro sulla realtà universitaria statunitense, nella quale domina il precariato e sono privilegiate le carriere tecniche, tecnocratiche ed economiche e le opinioni anti-sistema sono penalizzate con l’allontanamento. È quanto si ricava, per esempio, da un articolo di Paul Street, il quale scrive, tra l’altro, che i docenti scomodi dal punto di vista politico sono licenziati assai facilmente, quando sono contrattati per un solo corso, un semestre o un anno accademico. Insomma, “l’America” non è affatto il regno del bengodi e del riconoscimento del valore dei singoli.

Tornando al meccanismo della cooptazione, che porta con sé la corruzione, si può evincere da un documentodell’ANDU (Associazione nazionale docenti universitari), intitolato significativamente “Corruzione. Tu vu’ fa’ l’americano ma”, nel quale si può leggere: “… da sempre l’ingresso in tutte le figure pre-ruolo e in ruolo (prima l’assistente e poi il ricercatore a tempo indeterminato) sono avvenute e avvengono attraverso scelte locali e dal luglio del 1998 sono localmente scelti anche i professori ordinari e associati, così come stabilito da una legge voluta da Luigi Berlinguer”.

Naturalmente bisogna spiegare a chi non conosce la vita universitaria cosa significa “scelta locale”, a suo tempo sostenuta da personaggi assai noti come Umberto Eco, Angelo Panebianco e Marcello Pera tra gli altri. “Scelta locale” significa che, all’interno delle facoltà e dei dipartimenti, ogni professore ordinario, d’accordo o in conflitto con i suoi colleghi, si darà da fare per ottenere i finanziamenti con cui bandire un concorso di vario livello, il cui vincitore è già deciso prima dello svolgimento dello stesso e sarà sicuramente un membro dell’entourage di detto professore. Ciò significa per esempio che dovrà essere affine ideologicamente al suo mentore e che tutta la sua carriera sin dall’ingresso iniziale sarà scandita dalle sue relazioni con il docente di riferimento. Una prima conseguenza di tale condizione è un forte limite alla libertà di ricerca e spesso lo svolgimento di un lavoro subalterno e di supporto al “capo”. Non è quindi un caso che anche l’università è popolata di quelli che sono chiamati metaforicamente “portaborse” e che, come ho avuto già modo di scrivere, rispetto ai loro “baroni” corrispondono ai valvassori e ai valvassini. Metafora medievale assai calzante, giacché per chi non lo sapesse la categoria dei docenti universitari, pur svolgendo sostanzialmente le stesse mansioni, non ha gli stessi diritti e prerogative, dal momento che, per esempio, vi sono casi in cui tutti i docenti votano, altri in cui votano associati e ordinari, e altri in cui votano solo gli ordinari. Una delle richieste tradizionali dei sindacati universitari, ormai cadute nel dimenticatoio, era quella del ruolo unico per superare questa assurda e antidemocratica organizzazione categoriale.

Bisogna aggiungere che, in certi casi limitati, il principio della cooptazione poteva anche avere un senso e in particolare quando dava vita alla formazione di una “scuola”, che si caratterizzava per la sua produzione di alto livello e per un determinato orientamento culturale. Ovviamente questo modo di procedere non avrebbe dovuto ostacolare la formazione di altre “scuole”, ossia di altri punti di vista teorici e metodologici in uno stesso settore disciplinare. Oggi, direi, gran parte di tutto questo si è perso anche per l’aziendalizzazione delle università e la cooptazione è praticata in forme assai deteriori.

Nonostante dal mio punto di vista il panorama universitario sia così sconfortante, non voglio concludere senza una nota ottimistica. Mi riferisco in particolare al documento elaborato dal Politecnico di Torino (“In difesa dell’Università pubblica”) [1], nel quale si propone ancora una volta una serie di provvedimenti che dovrebbero intervenire sui vari aspetti del funzionamento dell’università, dal de-finanziamento al diritto allo studio, dal reclutamento straordinario all’abbandono della logica concorrenziale tra atenei. Tale documento, insieme ad un altro documento sindacale, che ripropone una corretta visione complessiva, ha turbato il Movimento per la Dignità della docenza universitaria, proclamatore dello sciopero appena concluso e che certamente è riuscito a coagulare una parte significativa di docenti di diverso orientamento, il quale si è lamentato dei tentativi di spezzare il fronte dei docenti e ha rivendicato l’elaborazione di un suo pacchetto di proposte, che saranno presentate a tempo debito. D’altra parte, tale Movimento sembra essere caratterizzato da una struttura verticistica, i cui militanti ricevono comunicazioni e documenti dal centro, senza nessuna forma di discussione e di dibattito. E pensare che i docenti universitari hanno sempre accusato i sindacati di essere poco rappresentativi!

Note

[1] Mi chiedo se può ancora definirsi pubblica dal momento che nei Consigli di amministrazione degli atenei siedono due membri esterni, che dovrebbero rappresentare le esigenze della società nel suo complesso.

Alessandra Ciattini

14/10/2017 www.lacittafutura.it

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