L’era della Disinformazia, ma producono più bufale i media ufficiali o la Rete?
“Senatore massacrato di botte da due disoccupati”, il titolo è eloquente. L’immagine, sotto, ritrae un uomo per terra sanguinante. La notizia diventa virale in poche ore. Saranno migliaia le condivisioni sui social network, nei commenti al post si darà libero sfogo all’odio nei confronti della Casta: “Hanno fatto bene, meniamoli tutti!!”. Peccato si tratti di una cosiddetta fake news. Una falsità. Molti non lo sapranno mai. Racconteranno al lavoro, in famiglia o agli amici che “finalmente qualcuno ha dato una lezione ai politici papponi mentre noi soffriamo la fame” (come si legge in un altro commento). Come un effetto domino, una bufala diventerà di dominio pubblico. E di notizie false in Rete ne girano a centinaia. Un proliferare di narrazioni tossiche che costruiscono post-verità (un’espressione resa popolare da un articolo del Guardian del 2016). Siamo all’esaltazione dell’irrazionalità: finisce il lume della ragione ed inizia un campo contaminato da bugie e rancore. Il dibattito è di grande attualità, se ne discute a livello globale. Come arginare le fake news?
“You control the Information Age: welcome to your world“, nel 2011 una copertina del Time esaltava in maniera trionfalistica la Rete, sottolineando come l’avvento di internet avesse sottratto il monopolio della divulgazione delle notizie ai media tradizionali. Cinque anni dopo, nell’agosto 2016, la rivista americana pubblicava una copertina di tutt’altro tono dedicata ai trolls e allo hate speech: “Perché stiamo cedendo internet alla cultura dell’odio”. Entrambe le copertine sono forzate – la Rete non aveva, e non ha, una funzione redentrice, né ora è solo luogo di odio – ma, di certo, è in atto un cambiamento: viviamo l’epoca dei social network e delle notizie distorte che alimentano propaganda e cattiva informazione. La stessa politica passa per questo campo di battaglia.
Disinformazia, un libro di Francesco Nicodemo (Marsilio Nodi, 238pp), è un prezioso strumento per orientarsi nella giungla dei dati, tra fake news e fatti reali, sovraccarico informativo e attacchi alla democrazia. Un saggio utile che fa un’attenta analisi della comunicazione (politica) al tempo dei social media. La premessa è obbligatoria: la Rete rappresenta uno strumento per condividere saperi, partecipazione e attivazione dei cittadini. Pensiamo nel 2011 alle Primavere Arabe o al movimento degli Indignados: internet diveniva mezzo prioritario per mettere in connessione le varie piazze indignate contro il Sistema. In Spagna qualcuno l’ha definita “tecnopolitica”, come ha fatto il politologo Antoni Gutiérrez-Rubí: “Mentre in molti passavano il tempo a screditare il modello di voto dell’asamblea ciudadana, la maggioranza non ha compreso come le nuove reti siano capaci di costruire progetti. Siamo di fronte a una tecnologia della prossimità capace di cambiare i modelli della comunicazione, dell’organizzazione e della creazione di contenuto”.
Però, oltre alle grandi potenzialità, la Rete nasconde profondi limiti. Un lato oscuro. Se lo scopo dichiarato di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, è quello favorire una maggiore pluralità di opinioni sulla sua piattaforma, non sempre gli intenti vengono rispettati. Anzi, al contrario. Così arriviamo a ciò che Nicodemo ricostruisce bene nel testo: i social network possono essere luogo di disinformazione e di propaganda per il cosiddetto gentismo.
La Rete si riempie di informazioni false e razziste. Quelle contro i migranti vanno per la maggiore. Siti ad hoc che producono bufale per guadagnare in introiti pubblicitari tramite il fenomeno del clickbaiting, ovvero quel contenuto che nasce con l’intento di catturare il click del lettore con titoli strillati ed inventati. Nel libroDisinformazia si evidenzia anche un altro dato: il 59% dei link condivisi su internet non viene aperto. L’utente condivide in base al titolo, senza nemmeno leggere l’articolo. Siamo entrati nell’era della post-verità e dobbiamo arrenderci alle narrazione distorte dei fatti?
Da questo punto di vista, la vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi è un caso emblematico: un’intera campagna elettorale inquinata da un numero importante di informazioni fasulle, falsi account, teorie del complotto, fotomontaggi e trolls. Il magnate americano riusciva, con grande abilità, a spostare l’attenzione dai temi reali del Paese con frasi ad effetto, polemiche, fake news contro la sfidante Hillary Clinton, la quale inseguiva il tycoon su quel piano replicando alle ingiurie. Una strategia che si rivelerà perdente. Nel web la paura sembra prevalere sulla ragione. La pancia prevale sulla testa. La spiegazione razionale risulta ininfluente perché la forza del complottismo non si basa sull’applicazione del metodo scientifico, né sulla ricerca di prove empiriche, quanto piuttosto su credenze e supposizioni che diventano dogmatiche.
“I populismi – si legge puntualmente in Disiformazia – fanno largo uso di temi e tecniche comunicative che colpiscono le emozioni degli interlocutori, innanzitutto paura, rabbia e odio, attraverso un racconto che descrive scenari cupi, minacciosi e senza speranza con argomenti non fattuali. La costruzione di questa narrativa apocalittica e irrazionale si basa su meccanismi retorici e interpretativi che comunemente vengono definiti storytelling”.
Da un lato Nicodemo è attento ad evidenziare con maestria e competenza le storture della Rete, dall’altro sposa una logica binaria: lo scontro sarebbe tra populismo versus razionalismo. “Da una parte – sostiene – ci sono i profeti dell’Apolicasse che hanno sfiducia nei confronti del progresso, caratterizzata da una visione millenaristica, cupa, antiscientifica; dall’altra chi ha grande fiducia nel futuro, nella scienza e nell’umanità”.
Qui sorgono delle perplessità. Il populismo – come in realtà si sottolinea anche nel libro – è un termine in voga che ha finito per voler dire tutto. O niente. “I cantori del capitale tendono a tacciare di populista qualunque aspirazione popolare. Vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista (soprattutto negli Stati Uniti). Vuoi la tua pensione indicizzata sull’inflazione? Ma che razza di populista!” ragiona il giornalista Marco D’Eramo. Per rimanere negli Usa, il populismo di Donald Trump è uguale a quello di Bernie Sanders? Il populismo di Podemos è identico a quello di Marine Le Pen? E siamo sicuri che gli stessi Emmanuel Macron, il premier francese, o Renzi non siano anch’essi populisti? Il termine populismo, riferito alla Rete, andrebbe puntualizzato e definito meglio.
In secondo luogo, la logica binaria spinge Nicodemo a difendere, in qualche modo, lo status quo. Come possiamo analizzare la degenerazione della Rete senza considerare la crisi dei media mainstream? O meglio: le persone, soprattutto i giovani, preferiscono i social network, finendo a credere a tutto quel che circola in Rete, perché non si riconoscono più nella stampa mainstream. Cresce costantemente lo scetticismo nei confronti di dati e statistiche ufficiali, si diffida dei giornalisti in quanto categoria. Nell’era della crisi della rappresentanza e della sfiducia nei confronti delle istituzioni, i media principali sono visti come i difensori del Sistema. Quindi dei nemici. Al di là delle paure irrazionali e senza fomentare odi e complottismi, è doveroso rilevare come il nostro giornalismo spesso, purtroppo, partorisca più fake news della Rete; come i governi dicano più falsità del web. Pensiamo alle menzogne, poi confessate anni dopo da Toni Blair, per giusticare la guerra in Iraq contro Saddam Hussein. Allora, attenzione a sposare ilframe liberal nel quale da una parte ci sarebbe la stampa buona che annuncia le verità, dall’altra la Rete populista che produrebbe fake news. Si rischia di banalizzare una questione molto più complessa e meno schematica.
Il giornalismo nostrano è, infatti, sempre più distante dall’essere il cane da guardia del potere ed è appiattito sul pensiero unico dominante. Non è un caso che nelle due elezioni più significativi degli ultimi tempi – votazioni Usa e referendum sulla Brexit – sondaggi e stampa mainstream abbiano preso un abbaglio, convinti vincessero rispettivamente Clinton e il remain. I media ufficiali sono diventati parte integrante dell’establishment, non più “scomodi”, perdendo il sentore del Paese reale.
La discussione sulle bufale riguarda direttamente la nostra categoria e ci interroga sulla qualità della professione in Italia. Non c’è più verifica delle fonti. E il precariato diffuso non mette in condizione molti cronisti di approfondire le notizie. I mass media trattano twitter come una fonte, cambiando le stesse modalità del giornalismo.
Nell’analizzare perfettamente il mondo delle fake news in Rete – se proprio vogliamo muovere una critica al libro – Disinformazia tralascia questo ruolo della stampa mainstream. Il cosiddetto populismo in Rete non è solo la conseguenza della crisi dell’informazione ufficiale in Italia? Così come il vento populista xenofobo che soffia in Europa, non è solo una conseguenza delle politiche d’austerity sostenute, per anni, da centrodestra e centrosinistra? Sono fenomeni connessi e complementari.
Da questo schema binario se ne esce solo praticando “terze vie”, ovvero costruendo un’informazione altra da quella odierna capace di non inseguire le sirene del gentismo. Un’alternativa possibile (nel campo sia comunicativo che politico) tra il populismo xenofobo e il Sistema vigente.
Per arginare le fake news non servono bavagli alla Rete o vigilantes governativi ma è propedeutico, in primis, ridare prestigio e legittimità al giornalismo. L’antidoto migliore contro complottismi e bufale consiste, come argomenta Nicodemo, nel costruire narrazioni egemoniche nella società senza inseguire ilgentismo sul terreno delle falsità e dell’odio. Servono storytelling, alternativi e nuovi, per riaffermare i fatti e ragionare nuovamente con la testa.
Giacomo Russo Spena
6/11/2017 da MicroMega
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