PE.S.CO o N.A.T.O ? Una belligeranza strutturale permanente.
Potere al Popolo è l’unica lista che ha inserito nel suo programma, senza timidezze, i temi della pace, del disarmo (in primis quello nucleare), dell’uscita dalla Nato. Più in generale del ribaltamento di una belligeranza che appare oramai strutturale e permanente.
Al momento siamo tutti/e impegnate/i affinché il passaggio del 4 marzo possa segnare il rientro in Parlamento della sinistra radicale, un rientro che potrebbe costituire la vera “sorpresa” di questa tornata elettorale, ma soprattutto il primo passo per recuperare visibilità e per molti versi anche operatività.
Sia nel caso in cui questo passaggio si realizzi, sia che si risolva in un pur utile esercizio di unità d’intenti, è importante che Rifondazione Comunista qualifichi la sua presenza politica su questi temi dirimenti.
Per troppo tempo infatti la politica estera (e quindi anche quella militare) è stata trattata come una sorta di orpello etico (talvolta sacrificabile) con cui ornare la battaglia politica.
Ma i due minuti che ci separano dalla “mezzanotte nucleare” indicata dalla Federation of atomic scientists, la Guerra fredda 2.0, la lunga scia di devastanti aggressioni a cui questo Paese ha partecipato direttamente ed indirettamente negli ultimi 27 anni e la nuova missione in Niger che inaugura una nuova stagione di ingerenze italiche nell’Africa sub-sahariana dovrebbero suggerire una rinnovata attenzione ed impegno in questo senso. Ma per ricostruire una opposizione efficace alle politiche belliciste/neocoloniali e al tempo stesso elaborare vie d’uscita concrete, non è più sufficiente la sola contestazione, per quanto legittima, doverosa e vitale.
La dimostrazione definitiva di ciò, l’abbiamo potuta vivere il 15 febbraio 2003: in seicento città del mondo milioni di persone marciarono contro la guerra d’aggressione che gli anglo-americani stavano lanciando contro l’Iraq con fraudolenti pretesti.
Quella manifestazione, anzi quelle manifestazioni con tutte quelle persone che più o meno contemporaneamente scesero per le strade delle città in tutti i continenti del pianeta fu senza dubbio un evento enorme. Un “No” telegrafico, facile e chiaro venne gridato in faccia ai governi interessati dall’impresa bellica.
Fu un grandioso sussulto internazionalista, di superamento dei confini e di fratellanza difficilmente ripetibile nel breve periodo.
Eppure il vero dato che si raccolse in seguito fu purtroppo questo: nessuna manifestazione, neanche la più imponente e internazionale della storia, poteva fermare quell’orda di interessi colossali, di grande business che come una massa di vapore crescente premeva contro le pareti della ritualità ufficiale e mediatica. Perché dietro a quella mobilitazione c’era “soltanto” un grandioso movimento etico e non una serie di organizzazioni che sapessero e potessero dare forma all’atto di protesta, inserire il “Not in my name” in una piattaforma politica concreta, organica, conseguente, convincente, in grado di proporre delle riforme strutturali articolate.
Non limitarsi ad organizzare la contestazione significa ricominciare a studiare per comprendere fino in fondo il quadro generale dentro cui si esprime la belligeranza, condividere l’analisi a livello del continente europeo, elaborare nel quadro della Sinistra Europea un approccio comune che sappia immaginare la concretezza di un nuovo ricollocamento strategico all’insegna della cooperazione.
Il quadro generale della belligeranza non è altro che un formidabile processo produttivo a ciclo continuo che non si ferma mai, nemmeno un secondo.
Questo processo produttivo è scandito da due tempi compenetrati e quasi indistinguibili: un indifferenziato tempo di pace in cui si fanno ricerca e produzione; e un indifferenziato tempo di guerra in cui si sperimenta e si consuma ciò che si è prodotto.
Dentro e fuori a questo processo produttivo agiscono ed intervengono un insieme complesso di attori e fattori di produzione.
Vale la pena allora di riconoscere e separare questi fattori, dargli un nome ed un ordine gerarchico, di importanza.
È solo con tutti i pezzi smontati sul banco di lavoro che si può comprendere dove e come sia possibile tentare un intervento, dove insistano eventuali contraddizioni da agire.
L’immagine allegata aiuta a visualizzare il quadro generale: ognuno dei riquadri racchiude i pezzi fondamentali del processo produttivo sino al suo esito più alto (o più basso): la guerra.
Sarà nostro compito tentare di esaminarli, uno per uno, riportando all’attenzione dei compagni e delle compagne i risultati dell’inchiesta.
Ciò che impedisce la definizione di una nuova politica estera, commerciale, energetica e di reperimento delle materie prime (di cui abbiamo assoluto bisogno) che non sia aggressiva, ma cooperativa, sono infatti gli stessi punti di forza su cui si fonda la nostra belligeranza.
Si tratta della privatizzazione spinta della guerra, fotocopia del più che consolidato modello anglo-americano, appendice della più generale privatizzazione della società.
Senza un quadro di riferimento radicalmente alternativo, persino il tema sacrosanto della riduzione delle spese militari rischia di essere un’arma a doppio taglio: un esercito (professionale) europeo oggi costerebbe infinitamente meno, ma non perderebbe minimamente la sua funzione offensiva/neocoloniale ed il suo allineamento atlantico.
Abbiamo bisogno di un piano che sia convincente, che possa essere condiviso e che ci porti fuori dalla Nato, fuori dalla Pe.s.co., fuori dalla responsabilità storica di essere co/protagonisti della corsa globale agli armamenti.
Su questo terreno siamo impegnati, sia in Italia, che in Europa.
Gregorio Piccin
2/2/2018
I precedenti articoli possono essere trovati ai seguenti link:
http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=32107
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