Il servizio sanitario conta
Quando nel 2000 le Nazioni Unite lanciarono l’iniziativa dei Millenium Development Goals (MDGs), degli otto obiettivi tre riguardavano la salute: il n. 4, ridurre la mortalità dei bambini; il n.5, ridurre la mortalità materna; il n. 6, combattere le grandi epidemie come HIV/AIDS, malaria e tubercolosi. Gli obiettivi 4 e 5 erano molto collegati agli obiettivi 1, 2 e 3: la lotta alla povertà, l’istruzione primaria universale, l’eguaglianza di genere e l’empowerment delle donne. Per l’obiettivo 6 di lì a poco si sarebbe dato vita – nel corso del G7 di Genova (2001) – a un tipico intervento “verticale”, l’istituzione di un fondo (Global Fund) per combattere, per l’appunto, HIV/AIDS, malaria e tubercolosi, fondato sulla partnership pubblico-privato. La sede a Ginevra, la cassa nelle mani della Banca Mondiale. Di rafforzare i sistemi sanitari pubblici, per rispondere all’insieme dei bisogni di salute della popolazione, proprio non si parlava. Tra quei bisogni stavano emergendo in tutta la loro evidenza e gravità le malattie croniche, le non-communicable disease (NCD), ma tra i MDGs di questo problema non c’era traccia.
Bisogna attendere il 2005 per rendersi conto, in un rapporto dell’OMS[1], che le malattie croniche sono il principale problema di salute della popolazione mondiale, e lo sono anche nei paesi più poveri, come dimostra la Figura 1 (tratta dal Rapporto). Un articolo di Lancet dello stesso anno parlerà – a proposito di malattie croniche – di un’epidemia negletta[2].
Figura 1. Le principali cause di morte nel mondo, per gruppi di paesi suddivisi per livelli di reddito (secondo i criteri della Banca Mondiale). Fonte OMS, 2005.
La Figura 1 mostra come proporzionalmente le malattie croniche siano la causa di morte più importante rispetto alle altre due (malattie infettive, condizioni materno-infantili, deficienze nutrizionali e incidenti) nei paesi ad alto reddito, ma lo sono nettamente anche nei paesi a reddito medio-alto e in quelli a reddito medio-basso (come Cina e India, dove nel 2005 si registrava il numero più alto di decessi per questa causa, oltre 13 milioni). Nei paesi a basso reddito le malattie croniche registravano un livello di mortalità molto vicino a quello provocato dalle malattie della povertà. Del resto che i paesi più poveri dovessero sopportare un doppio carico di malattia, e fossero costretti ad affrontarlo con sistemi sanitari fragilissimi, in quanto – per ordine della Banca Mondiale – sotto-finanziati e privatizzati, era noto da tempo. La Tabella 1 mostra l’andamento delle cause di morte nella città di Accra (Ghana) e la relativa transizione epidemiologica dal 1953 al 2001: ebbene già nel 1991 le malattie dell’apparato circolatorio erano la prima causa di morte[3] .
Tabella 1. Distribuzione delle cause di morte a Accra (Ghana), 1953, 1966, 1991, 2001.
I due post a corredo di questa newsletter dedicati alla crescita dei tumori femminili nei paesi a basso e medio reddito (leggi Il cancro delle donne. Una sfida per l’equità e la salute globale (I parte) e Il cancro delle donne. Una sfida per l’equità e la salute globale (II parte)] ci dicono che le donne che vivono nei paesi a basso e medio reddito hanno più alti carichi di queste malattie, minore accesso alle cure, si presentano con stadi più avanzati della malattia e hanno maggiori probabilità di morirne rispetto alle donne che vivono nei paesi a reddito più alto. La differenza tra la vita e la morte sta nella possibilità di accedere a servizi preventivi, di diagnosi precoce, e di cure di qualità. La differenza la fa un sistema sanitario universalistico che garantisce a tutte le donne l’accesso all’assistenza sanitaria senza barriere economiche, geografiche o culturali.
I più recenti dati dell’OMS, riportati nell’annuale rapporto statistico, ci dicono che la mortalità prematura per malattie croniche (quella che avviene tra 30 e 70 anni) è molto maggiore nei paesi a basso e medio livello di reddito rispetto a quelli ad alto reddito, con differenze che arrivano al + 200% e anche + 300% (vedi Tabella 2). In queste differenze, vere e proprie diseguaglianze nella salute, entrano in gioco due fondamentali fattori: a) l’esposizione a determinati fattori di rischio (fumo, alcol, alimentazione, sedentarietà, inquinamento) e b) la qualità del sistema sanitario e la sua accessibilità. Ovunque – in Europa (occidentale), in Nord America (Canada), in Asia (Giappone e Singapore), in Oceania (Australia e Nuova Zelanda) – sistemi sanitari universalistici e tecnologicamente avanzati hanno livelli minimi di mortalità prematura per malattie croniche. Altrove questa probabilità aumenta di pari passo con la maggiore esposizione ai fattori di rischio e soprattutto in presenza di sistemi sanitari iniqui e inefficienti: queste due condizioni raggiungono insieme il massimo culmine in paesi come la Russia, che sul piano della salute non ha ancora interamente assorbito lo shock del collasso dell’Unione Sovietica (vedi La sanità russa sotto Vladimir Putin).
Tabella 2. Probabilità di morire – tra 30 e 70 anni – per qualsiasi malattia cronica (malattie cardiovascolari, cancro, diabete, malattie respiratorie),
%. Paesi selezionati (Anno 2015). Fonte: WHO, Health Statistics, 2017.
Il servizio sanitario conta. Ma quanto conterà in Italia nel futuro?
La Tabella 2 mostra che l’Italia è ai primi posti nella classifica nella mortalità prematura da malattie croniche. Non è una novità: su questo fondamentale indicatore di risultato – la mortalità evitabile con interventi sanitari preventivi e curativi – il sistema sanitario italiano ha sempre occupato posizioni di eccellenza; es: nel 2008 tra i paesi OCSE l’Italia occupava il primo posto nella mortalità evitabile delle donne e il terzo (dopo Svezia e Svizzera) nella mortalità evitabile degli uomini.
La domanda è: quanto durerà? Perché altri indicatori volgono decisamente al peggio: sono in aumento gli anni trascorsi in cattiva salute sia negli uomini che nelle donne, peggiora l’accessibilità ai servizi pubblici a causa dei lunghi tempi di attesa e dell’elevato prezzo dei ticket e di conseguenza aumenta il numero dei cittadini che rinunciano a curarsi, aumenta la spesa privata e si dilatano le diseguaglianze nella salute nella popolazione come riflesso dell’aumento delle diseguaglianze socio-economiche all’interno della società. Tutto ciò in un contesto di complessivo sotto-finanziamento del servizio sanitario pubblico che ha prodotto negli ultimi anni una grave emorragia di personale e il blocco degli investimenti.
L’altra domanda è: cosa succederà alla sanità italiana dopo il 4 marzo, giorno delle elezioni politiche nazionali (e anche regionali in Lombardia e Lazio)? Molti si sono esercitati nell’analisi dei programmi elettorali delle varie forze politiche per scrutare il futuro, ma – almeno a breve-medio termine – il futuro del nostro sistema sanitario è stato già ipotecato dalle scelte degli ultimi governi, in due punti fondamentali:
- Il Governo con il DEF (Documento di Economia e Finanza) 2017 ha deciso di prolungare nel tempo il sotto-finanziamento del servizio sanitario pubblico portando il rapporto tra spesa sanitaria e PIL dal 6,7% del 2017 al 6,5% nel 2018, fino al 6,4% nel 2019, una percentuale mai raggiunta in passato e nonostante si sia in presenza di una ripresa economica (di cui però non deve in alcun modo beneficiare la sanità pubblica).
- La totale passività dei Governi di fronte alla prospettiva dell’emorragia di 45.000 medici in 5 anni che si determinerà in Italia per effetto dei pensionamenti e che riguarderà sia i medici di famiglia sia i medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale (vedi l’articolo su Il Quotidiano Sanità). La perdita di questa massa di medici andrà a sommarsi a una quantità analoga persa negli ultimi anni, con l’effetto di indebolire ulteriormente la struttura portante del sistema nazionale.
La progressiva debilitazione del pilastro pubblico del Ssn porta acqua al mulino del “secondo pilastro”. Prospettato nel 2008 da Maurizio Sacconi, ministro del governo Berlusconi, il pilastro assicurativo privato oggi riscuote entusiastiche adesioni bipartisan (vedi Tutti pazzi per il secondo pilastro) e – a proposito di programmi elettorali – quello del Partito Democratico punta sull’welfare aziendale e la sanità integrativa, che promette di estendere anche al settore pubblico.
Data la straordinaria pulsione del centro(-sinistra) di accodarsi alle politiche della destra (vedi anche Job Act e Buona scuola), conviene guardare cosa bolle in pentola in quella parte politica per capire cosa potrebbe capitare alla sanità italiana dopo il 4 marzo.
Primo indizio. Il candidato governatore della destra alle elezioni regionali del Lazio, Stefano Parisi, nel corso di un dibattito ha dichiarato che per pagare i costi della flat tax (che riduce le tasse ai più ricchi), ai redditi più alti non sarebbe più garantita la sanità gratuita, sostituita da un’assicurazione a pagamento (vedi video).
Secondo indizio. Se l’idea fissa della destra – a partire dal ministro Di Lorenzo ai tempi della legge 502 del 1992 – è quella di consentire a una certa platea di utenti la fuoriuscita dal Ssn per creare una sanità ricca per i ricchi e una povera per gli altri, questa idea è ulteriormente confermata da un’intervista rilasciata dal responsabile sanità di Forza Italia e – nel contempo – medico personale di Silvio Berlusconi, Alberto Zangrillo (vedi l’articolo su Il Quotidiano Sanità). La novità in questo caso è la proposta di una copertura sanitaria individuale che va oltre il meccanismo assicurativo. Si tratta del Health Savings Account introdotto dall’amministrazione Bush nel 2003 e rilanciato nel programma sanitario di Trump, la forma più estrema di privatizzazione dell’assistenza sanitaria (vedi l’articolo su Care Health Savings Accounts. L’ultima generazione delle assicurazioni sanitarie americane) .
- Preventing chronic diseases, a vital investment. WHO: Geneva, 2005.
- Horton R. The neglected epidemic of chronic disease. Lancet 2005; 366: 1514.
- Agyei-Mensah S, De-Graft Aikins A. Epidemiological Transition and the Double Burden of Disease in Accra, Ghana, Journal of Urban Health: Bulletin of the New York Academy of Medicine 2010; 87 (5): 879-97.
Gavino Maciocco
26/2/2018 www.saluteinternazionale.info
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