L’economia reale rimossa dalla Politica
La frammentazione politica raggiunta e la nuova legge elettorale consegnano un dibattito politico drammaticamente evanescente, soprattutto sui temi economici tuttora aperti.
Il debito pubblico non appare più il principale problema italiano, le banche, al netto delle polemiche ruotate intorno a Boschi & C, sembrano uscite dalla crisi, il rapporto con le regole europee è all’insegna di una rivisitazione tanto proclamata nella ricerca dei voti quanto prevedibilmente inconcludente nella fase successiva di governo, tanto più nella versione che guarda ai paesi dell’Europa orientale recentemente esplicitata da Giorgia Meloni. Ovviamente tutto ciò può accadere alla luce di una congiuntura globale relativamente favorevole che consente di vedere il bicchiere mezzo pieno, di minimizzare le contraddizioni e rilanciare con proposte quantomeno inverosimili.
La ripresa è in corso, sebbene sia stata ottenuta prevalentemente attraverso scorciatoie di ordine finanziario. L’economia reale riparte al traino di quella finanziaria, diseguaglianze e impoverimento non sono certo nell’agenda di questo nuovo processo. I guai possono nascere proprio dalla possibile riduzione delle politiche monetarie espansive della Bce di fronte alla ripresa: se la droga monetaria ha salvato il sistema, ora la disintossicazione può costituire un rischio, specie per i paesi con i fondamentali più vulnerabili, accompagnato dall’esplosione di bolle e shock finanziari internazionali frutto proprio di un eccesso di moneta in circolo. Ecco allora che grazie alla ripartenza dell’economia italiana il rapporto debito/Pil nel 2017 è sceso di mezzo punto percentuale, ma il debito continua ad aumentare in termini assoluti. Avanza così una spinta a derubricare l’austerità, ma solo per provare a stabilizzare il contesto, proseguendo con politiche finanziarie fondate sulla trappola del debito.
Diversamente dai paesi più forti e in salute, però, all’Italia mancano strumenti per la costruzione di sufficienti garanzie sui propri titoli pubblici, garanzie che allo stato attuale potrebbero arrivare principalmente dalla dimensione europea. Le medesime che mancano sul versante del credito. La recente sintonia tra Germania e Francia su tali questioni è, come spesso accade, sbilanciata sugli interessi tedeschi. Nel caso specifico le assicurazioni previste per le banche a livello continentale dovrebbero arrivare dopo che siano esaurite le risorse nazionali. Il recente clima continentale, poi, spinge per una decisa riduzione dei crediti deteriorati esistenti. Infine c’è il nodo della quota dei titoli pubblici nella pancia delle banche stesse. I titoli italiani sono considerati particolarmente rischiosi e il fatto che le banche italiane ne posseggano quote particolarmente rilevanti, val la pena ricordarsi i tempi in cui erano tra i pochi soggetti ad acquistarne, indebolisce il sistema del credito autoctono. Anche in questo caso le proposte che provengono dal nuovo asse franco-tedesco parlano di dare un peso positivo ai titoli pubblici nel calcolo del valore patrimoniale di un istituto di credito oppure di porre un limite alla quantità di questi titoli che una banca potrebbe detenere. In entrambi i casi risulta evidente come tali scelte peggiorino le condizioni dei paesi periferici, senza ipotizzare nuove prospettive perché escano dalle loro difficoltà.
Come se l’austerità, una volta fatta uscire dalla porta, la facessero rientrare dalla finestra. E qui veniamo alle regole europee, alla tanto annunciata richiesta di flessibilità sui conti. Tutti la chiedono, ma come per tutto ciò che abbiamo visto in questa campagna elettorale, appare un fattore propagandistico, completamente avulso dal contesto reale, dai rapporti di forza tra i paesi e dalle nuove convergenze in via di affermazione su scala internazionale. La realtà, insomma, sembra marciare in tutt’altra direzione.
Marco Bertorello
Pubblicato sul Il Manifesto del 3.3.2018
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