Generazione Jobs Act
Siamo stati fregati, ridotti ad una generazione perduta[1].
E’ la generazione dei trenta-quarantenni, quella nata a cavallo tra la fine dei “trent’anni gloriosi” e l’edonismo anni ’80 degli “yuppies” e della “Milano da bere”, diventata adulta tra i “Fiscal Compact” ed il “Jobs Act” del nuovo millennio.
Una generazione disadattata perché, nel salto da un millennio all’altro, ha visto totalmente cambiati il linguaggio e le prospettive di vita.
Dal posto fisso ai lavoretti, dalla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto alle rate dei finanziamenti necessari ad integrare una “paga da fame”, dal sogno della “mobilità sociale” all’immobilismo borbonico.
La fotografia del paesaggio sociale tra le cui macerie vaga confusa la nostra generazione è analoga, in tutto e per tutto, a quella scattata quasi un secolo fa da Antonio Gramsci tra le colonne dell’ “Avanti!” : “La società viene sciolta da ogni vincolo collettivo e ridotta al suo elemento primordiale: l’individuo-cittadino. E’ l’inizio del dissolversi della società corrosa dagli acidi mordenti della concorrenza: denti di drago vengono seminati tra gli uomini e ne giganteggiano le passioni frenetiche, gli odi incolmabili, gli antagonismi irriducibili. Ogni cittadino è un gladiatore, che vede, negli altri, nemici da abbattere o da sottomettere ai suoi interessi….La concorrenza viene instaurata come fondamento pratico del consorzio umano……”[2]. Analogia che si trasforma in identità, se si sostituisce il consumatore all’individuo-cittadino e si considera la matrice comune: il liberismo sfrenato, il selvaggio appello agli “spiriti animali” ispirato ad una concezione darwinista della realtà e dei rapporti sociali.
Ecco svelata la fonte del nostro odierno disorientamento: come in uno dei film cult degli anni ‘80, “Ritorno al futuro”, ci siamo ritrovati all’improvviso sbalzati nel passato, in una macchina del tempo che ci ha riportato agli albori del Welfare State in cui siamo stati cullati. E ne riviviamo -ora come allora- tutte le originarie traversie, con la drammatica crisi economica mondiale, il trionfo del mercato e della tecnica globalizzatrici, la crisi delle democrazie insidiate da inquietanti personaggi politici.
Cresciuti nel culto del continuo ed inarrestabile progresso sociale e personale mediato dal merito, abbiamo dovuto fare i conti con l’inaspettata esplosione di questo pianeta di illusioni, a cui ha fatto seguito il vuoto.
Ed ecco che, per parafrasare Naomi Klein, proprio perché la vita odia il vuoto, se essa non è piena di speranza, qualcuno la riempirà di paura[3]: così è stato per noi, assediati ora dalla paura del lavoro, ora dalla paura dell’immigrato, ora dalla paura del debito.
“Non è lavoro, è sfruttamento”[4], gridano i piu’ giovani rappresentanti di questa perduta generazione, costretta a vagare dopo anni di studi “Dal fachiro al 730”[5].
Ed è proprio nelle riflessioni di due donne nate negli anni ’80, Marta Fana ed Elena Manzoni, che si puo’ forse recuperare un barlume di speranza, rappresentata ora dal riscatto collettivo attraverso il rabbioso rifiuto dell’“antropologia della subalternità”[6], ora dall’emancipazione individuale mediata dalla coraggiosa ricerca della propria felicità[7].
E valgano, allora, le parole di Jim Morrison, citate in queste giovanili testimonianze[8], a fondarne la riscossa: “Se per vivere devi strisciare, alzati e muori”.
NOTE
[1] Paolo Mossetti, Come i 30-40enni italiani sono rimasti fregati, 27 marzo 2018, The Vision.com
[2] Antonio Gramsci, La sovranità della legge, Avanti!, 1 giugno 1919, XXIII, n. 151, in L’Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, 1954, p. 4.
[3] Naomi Klein, Shock Politics – L’incubo Trump e il futuro della democrazia,Milano, Feltrinelli, 2017, p. 125, la citazione letterale è “La politica odia il vuoto e, se non è piena di speranza, qualcuno la riempirà di paura”.
[4] Marta Fana, Non è lavoro è sfruttamento, Roma-Bari, Laterza, 2017, oggetto di commento nel precedente contributo “La nuova coscienza di classe, quella dei subalterni” in Micromega, 8 novembre 2017.
[5] Elena Manzoni, “Dal Fachiro al 730”, Milano, Narcissus Edizioni, 2014; puo’ definirsi a tutti gli effetti un diario di Bridget Jones nell’era del Jobs Act.
[6] M. Fana, cit., pp. 151-159.
[7] E. Manzoni, cit., pp. 125-127.
[8] E. Manzoni, cit., p. 125.
Domenico Tambasco
3/4/2018 da MicroMega
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