Perché la disuguaglianza fa male alla democrazia.
Perché la disuguaglianza è in primo piano
La disuguaglianza non è mai stata al centro della riflessione economica: Anthony Atkinson, il più grande studioso del tema, diceva che per accorgersene è sufficiente guardare agli indici dei libri di testo.
È vero che il pensiero economico si è ampiamente articolato sul tema della distribuzione funzionale del reddito (ovvero, le quote del prodotto che vanno ai fattori produttivi), ma non ha mai dedicato molta attenzione – con le dovute eccezioni, s’intende – alla distribuzione personale del reddito (ovvero, le quote del prodotto che vanno alle persone, singolarmente o in gruppi di convivenza, tipicamente la famiglia): lì si annida, quando si verifica, la disuguaglianza.
Perché mai allora il tema della disuguaglianza economica è diventato ai nostri giorni scottante, e quasi ineludibile, almeno a parole? Due sono le motivazioni.
La prima giace nel dominio della teoria economica. Pur non dimenticando un certo dibattito empirico che invita alla prudenza, pare abbastanza dismesso il ragionamento secondo il quale la disuguaglianza giovi alla crescita. Trova vigore, invece, il suo opposto, ovvero che le nuoccia, in primo luogo attraverso la distruzione di capitale umano. Per molteplici canali, la disuguaglianza economica costituirebbe un ostacolo all’acquisizione di quelle abilità e competenze che oggi vengono richieste, anche per effetto della globalizzazione. Nulla di etico insomma, l’economia rimane ancora “valuefree” – indenne da giudizi di valore – come il manifesto costitutivo dell’economia positiva degli anni Trenta ci ricorda. Ha semplicemente cambiato opinione.
La seconda – non così diffusa tra forze politiche democratiche come dovrebbe – si esplica attraverso un percorso di scienza politica. La grande crisi dell’ultimo decennio e l’eco mediatica di movimenti come Occupy e il suo motto “we are the 99%” hanno portato alla luce che dalla metà degli anni Settanta in poi la disuguaglianza economica nei paesi ricchi e democratici è aumentata a ritmi sostenuti, pur se in modo non uniforme, e che percentuali piccolissime di popolazione possiedono oramai percentuali altissime di reddito (e ricchezza). Dove è il problema, se non nell’etica? No, il problema è politico. La disuguaglianza, infatti, colpisce la democrazia deteriorandone la qualità e può arrivare a danneggiare la tenuta politica di un sistema.
Conseguenze non solo economiche
Pur nelle critiche metodologiche connesse alla difficile relazione tra causalità e correlazione, il lavoro di Richard Wilkinson e Kate Pickett in italiano “La misura dell’anima: perché le disuguaglianze rendono le società più infelici”, ricordato recentemente su lavoce.info da Andrea Ciffolilli – mostra che non sono i paesi meno ricchi, ma quelli più disuguali ad avere i peggiori indicatori relativi a quasi ogni importante aspetto della qualità della vita, spezzando così una robusta lancia a favore della tesi che i problemi sociali non sono causati dalle condizioni di vita materiali.
Così, all’aumentare della disuguaglianza economica aumenta per le fasce svantaggiate della popolazione l’insoddisfazione per la propria posizione economica, il lavoro svilito, i bassi salari, l’impossibilità di mandare i propri figli in buone scuole.
Questa precaria situazione economica facilmente diventa una altrettanto precaria situazione sociale, e può finire col tradursi in una diminuzione della cittadinanza attiva: si legge di meno, si partecipa di meno e si scivola in un gruppo sociale più basso. All’aumentare delle differenze di reddito, le distanze sociali aumentano e si rafforzano le differenze tra gruppi di cittadini; alla fine, quello che identifica questi gruppi è proprio la loro distanza – ribadiscono Wilkinson e Pickett – che può raggiungere proporzioni enormi e portare all’esclusione sociale attraverso accessi sempre più ridotti alla sfera del consumo, della sanità, delle condizioni abitative, dell’istruzione, del mercato del lavoro qualificato, del sistema di reti di relazioni sociali e della mobilità sociale. A mano a mano che si diventa meno informati, meno partecipi e consapevoli, si diventa più deboli politicamente, più facilmente manipolabili o semplicemente più arrabbiati con la politica. Malcontento diffuso, allontanamento degli individui dalla vita sociale e politica, opposizione aperta alla classe dirigente, atteggiamenti di gruppo più violenti, come qualche scomposto movimento di piazza, possono diventare possibili scenari, dentro a spazi della politica vuoti in cui fiorisce una “civile” (civil) ma pur sempre “oligarchia”, come la chiama Jeffrey Winters: una situazione intermedia tra la democrazia e l’oligarchia vera e propria, in cui il potere è centrato sempre di più sugli interessi dei pochi, pur dentro un ambiente ancora democratico; ed è una situazione destinata a rafforzarsi per via della persistenza intergenerazionale degli svantaggi. Ecco perché – senza scomodare l’etica – la disuguaglianza deve interessarci. E molto.
Anna Socci
30/3/2018 www.lavoce.info
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