WELFARE AZIENDALE: QUESTO SCONOSCIUTO

Seconda parte

Se non fossimo il Paese che, in Europa – grazie al non invidiabile primato dell’evasione fiscale e contributiva – sottrae al fisco una cifra enorme, tra i 250 e i 270 miliardi di euro, per un valore corrispondente al 18% del PIL[1] e, contemporaneamente, si affida a un Premier dotato di “Una naturale capacità nel perseguire il disegno criminoso[2]”.

Se non ci ritrovassimo in un Paese la cui Carta Costituzionale[3] vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista e prevede sanzioni per chiunque, pubblicamente, ne esalti principi, fatti o metodi, ma, contemporaneamente, assiste, spesso con l’avallo di compiacenti forze dell’ordine, a manifestazioni e “adunate” di soggetti che sbandierano croci celtiche e usano ancora alzare il braccio destro per esibirsi nel famigerato gesto del saluto fascista.

Se non fossimo gli unici, in tutto il mondo civile, a doverci vergognare di un ex Presidente del Consiglio, ancora candidato a tale carica, già condannato, con sentenza definitiva[4], nel maggio 2013, a quattro anni di reclusione per frode fiscale; uno dei reati più odiosi, quando commessi da un uomo “pubblico”.

Se il nostro non fosse il Paese in cui si minaccia un’azione disciplinare nei confronti di un magistrato[5] che ha ricordato la vergogna nazionale rappresentata dalla sospensione dello Stato di diritto nelle giornate del G8 2001 a Genova, che, però, fruttarono promozioni ed avanzamenti di carriera a tanti dei responsabili del “macello”.

Se il nostro Paese non fosse quello in cui la sua classe imprenditoriale è sempre stata avvezza – tranne qualche lodevolissima eccezione[6] – ad elemosinare “aiuti di Stato”, condoni, sgravi e agevolazioni fiscali, sistematiche svalutazioni della moneta e continua rincorsa alla riduzione dei salari.

Se il nostro non fosse un Paese la cui classe politica rispecchia ed esalta troppo fedelmente i peggiori aspetti del carattere e della cultura dominante[7]tra la maggioranza dei suoi connazionali; continuando ad alimentarsi con una politica di “piccolo cabotaggio”.

Se il nostro fosse, in definitiva, un Paese appena “normale”, non nutrirei tante perplessità circa la bontà di uno strumento collettivo quale il c.d. “Welfare aziendale”.

Mi piacerebbe molto, infatti, avere l’opportunità di dissertare sulle innumerevoli possibilità offerte dal poter coniugare la vita in azienda con forme di associazionismo e coinvolgimento sociale di lavoratori e familiari.

E allora: perplessità legittime, oppure, dopo la Fornero, lo svuotamento dell’art. 18 e il Jobs act, la classe operaia si è finalmente meritata il Paradiso?

Nulla di tutto questo, purtroppo!

Certo, godere di tante agevolazioni e benefici – almeno in termini di potenziale disponibilità a farne uso al momento opportuno – non sarebbe strano per lavoratori dipendenti di una grande azienda con migliaia o, addirittura, decine di migliaia di dipendenti; si pensi ad esempio ai dipendenti Enel, del settore bancario e assicurativo, delle grandi aziende di trasporto cittadine e regionali e dei ferrovieri; tanto per restare ai “privati”.

Il punto è che i lavoratori italiani non sono solo questi.

Non è, infatti, ininfluente – ai fini di un accettabile welfare aziendale, possibilmente esteso alla stragrande maggioranza dei lavoratori – tenere ben presente una peculiarità tutta italiana: la presenza, nel sistema economico, di oltre quattro milioni di piccole e piccolissime imprese; con una forza lavoro pari a poche unità.

E non è, inoltre, solo un problema di numeri.

Quella del welfare aziendale è una questione molto più complessa di quanto appaia ai più. Vi si intrecciano, infatti, problemi di carattere politico, economico e sociale.

A parte, naturalmente, tutti quei lavoratori che ancora oggi non possono contare su di un premio di produzione o di risultato; che, allo stato, rappresenta la “condicio sine qua non” dell’esistenza del welfare aziendale.

C’è, poi, un punto “critico” ineludibile: il rapporto tra sanità e previdenza integrativa e welfare aziendale.

Come noto, uno dei cardini del welfare aziendale è rappresentato dalle miriadi di strumenti per intervenire a favore delle prestazioni che rientrano tra l’assistenza sociale e sanitaria del lavoratore e dei suoi familiari; a favore dei familiari anziani e non autosufficienti o handicappati.

Ebbene: a nessuno sfugga che, ragionando in questi termini, ci si avvia su di un terreno minato.

Quella italiana è una popolazione che si avvia ad essere costituita, in percentuali sempre maggiori, da persone anziane.

Al maggiore tasso di anzianità della popolazione è, conseguenzialmente, legato il maggiore ricorso alla farmacologia e all’assistenza sanitaria.

Di là dal fenomeno dell’elevato tasso di anzianità, c’è da valutare l’incidere delle vecchie e nuove povertà. Già oggi, in Italia, tra povertà assoluta e relativa, si contano circa 14 milioni di soggetti; e i poveri, è noto a tutti, hanno, innanzi tutto, bisogno di assistenza sanitaria.

Nel prossimo futuro – è già ampiamente documentato – al basso livello delle pensioni si accompagnerà, naturalmente, l’impossibilità di poter contare su una qualsiasi forma di previdenza complementare.

Se a questo si aggiunge che la stessa Corte dei Conti ritiene che “Per rispondere concretamente alle esigenze di una sanità di qualità accessibile a tutti, sono ancora numerose e costose le opere che è necessario eseguire” e, inoltre, si prende atto che la spesa sanitaria italiana pubblica continua a essere di molto inferiore alla media dell’UE – con una infaticabile corsa a renderla sempre meno efficiente e competitiva, a favore di quella privata – ci si accorge di un pericolo molto concreto: favorire – e, addirittura, renderlo appetibile agli occhi dei lavoratori (almeno in prima istanza) – uno scambio diseguale tra parti di salario e previdenza/sanità integrativa.

I lettori mi scuseranno, ma non riesco proprio a convincermi della bontà di un’operazione governativa che, a mio parere, è sempre più tesa verso la privatizzazione della sanità; la trovata del welfare aziendale rappresenta, in questo quadro, solo un’allettante “esca”; per i lavoratori e le già compiacenti Cgil, Cisl e Uil.

La previdenza integrativa e, più ancora, la sanità, rappresentano un business nel quale sono presenti ingenti investimenti da parte di privati e multinazionali.

La “torta” da spartirsi ha proporzioni enormi e gli stessi sindacati ne sono ampiamente coinvolti.

In effetti, sono personalmente convinto che, l’incrocio tra la legittima domanda di servizi e prestazioni sanitarie, da parte di lavoratori e familiari – in particolare di coloro che non possono né potranno contare su redditi medio/alti – e il recondito disegno politico, di graduale smantellamento dello stato di welfare universale, finirà con il produrre, un “pubblico” di tipo residuale e un servizio “privato” (adeguatamente remunerato) offerto sotto forma di “pacchetti” per sostituire, attraverso bonus, gli aumenti salariali.

Si creerebbe, quindi, una situazione nella quale: a) lo Stato, sarebbe sgravato dall’onere di dover offrire un welfare universale; b) gl’imprenditori godrebbero di sgravi fiscali aggiuntivi – che, naturalmente, finirebbero per inasprire la fiscalità generale – e di un’ulteriore riduzione del costo del lavoro; c) i privati del settore sanità, trarrebbero enormi utili (in regime di convenzioni) attraverso l’offerta dei suddetti pacchetti, da prevedere nei contratti collettivi a tutti i livelli; d) una parte dei lavoratori, con le loro famiglie, scambierebbe aumenti salariali con quell’assistenza sanitaria che, una volta, aveva carattere nazionale ed era garantita a tutti; e) la restante parte dei lavoratori, temo la stragrande maggioranza, insieme alle loro famiglie, sarebbe ridotta a contare su di un servizio sanitario pubblico di carattere meramente residuale.

In definitiva, il fosco orizzonte, cui già guardano con giustificata apprensione i lavoratori italiani, in particolare le nuove generazioni, appare sempre più avviato a una definitiva “americanizzazione” del welfare; attraverso una sistematica opera di smantellamento dello stato sociale vigente.

Al riguardo, appare opportuno tenere ben presente che la stessa opera di demolizione del servizio pubblico, attraverso forme di welfare aziendale, potrebbe essere tentata nei settori dell’educazione e della formazione delle giovani generazioni

Tra l’altro, è opportuno non dimenticare che, agevolare le intese tra le parti, al fine di sviluppare sempre più i margini di ricorso al welfare aziendale – attraverso la concessione di sgravi fiscali alle imprese e ai lavoratori – avrebbe due spiacevoli (elementari) conseguenze: una consistente riduzione delle entrate fiscali e l’inevitabile “partita di giro” sulle buste paga. Da un lato sgravi fiscali e, dall’altro, maggiore imposizione!

Cosa aspettarsi, quindi?

Tornerà il trombone di Pietro Ichino a tuonare (di nuovo) contro i lavoratori “protetti”, a discapito dei “paria”; così come, strumentalmente, faceva quando mirava a cancellare la “giusta causa” e svuotare l’art 18 dello Statuto?

Credo proprio di no!

Sono sicuro che, questa volta, si guarderà bene dal denunciare la condizione di apartheid per quei milioni di lavoratori e disoccupati che non saranno nelle condizioni per avere accesso ad alcuno dei “benefici” previsti da qualsiasi livello di welfare aziendale.

Dimenticherà, o meglio, farà finta di dimenticare che, per anni, ci aveva somministrato un ritornello secondo il quale era profondamente sbagliato continuare a difendere quel “posto di lavoro” che – i lavoratori beneficiari di un (futuro) soddisfacente welfare aziendale – torneranno, invece, a difendere con le unghie e con i denti!

NOTE

[1] “Qui Finanza” on-line; 24 marzo 2018.

[2] Così si espressero i giudici del Tribunale di Milano a proposito di Berlusconi per la condanna nella vicenda “Mediaset”

[3] XII disposizione transitoria e finale

[4] “Il Sole 24 ore”; 14 giugno 2016.

[5] Enrico Zucca, Sostituto procuratore generale di Genova che, a proposito del caso “Regeni”, l’italiano ucciso in Egitto, aveva dichiarato alla stampa:” I nostri torturatori (di Genova 2001) sono ai vertici della Polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro”?

[6] Alludo, in particolare, ad Adriano Olivetti, primogenito di Camillo, fondatore della “Ing. C. Olivetti & C”, nel 1908.

[7] Penso alla “deriva berlusconiana”, realizzatasi, in particolare, negli ultimi venti anni. Penso all’immagine dell’Italia in Europa, dopo il “Kapò” di Berlusconi a Schulz, gli apprezzamenti e gli atteggiamenti da play-boy “di borgata” nei confronti della consorte di Barack Obama e, ancora, le italiche “corna” esibite nella foto di gruppo di un vertice dei Ministri degli Esteri dell’U. E. nel 2002.

Renato Fioretti

Esperto Diritti del Lavoro. Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e salute

11/4/2018 La prima il 3 aprile su questo blog, dal nuovo numero di Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

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