Considerazioni inattuali per liberarsi dalle prove INVALSI
A marzo di quest’anno l’Istituto Nazionale di Valutazione ha pubblicato un documento intitolato “Le prove INVALSI secondo l’INVALSI”, testo provocatorio, nel senso proprio del termine. È stato scritto come una arrogante autodifesa alla sempre più diffusa ridda di critiche sulla valutazione standardizzata e censuaria. Nell’accusare la scuola di incomprensione del lavoro svolto dall’Istituto, i redattori si arrogano l’espressione di un giudizio insindacabile sulla capacità della stessa di valutare e valutarsi.
Questo nostro contributo tiene conto di:
- Una riflessione a cura di un docente (Carlo Scognamiglio, micromega-online, 05/04/2018);
- Fonti originali del MIUR, non strettamente invalsiane (Le Indicazioni Nazionali-Nuovi Scenari; Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa. Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa; Sillaba sulla Filosofia e sull’Imprenditorialità);
- Documenti ufficiali redatti e diffusi dall’INVALSI (Quadri di Riferimento alle prove di Italiano/Matematica; Rapporti Annuali sulle Prove; Progetti sperimentali VSQ e Vales; lettere inviate dalla Presidente Anna Maria Ajello e dal Direttore Paolo Mazzoli alle scuole, ai dirigenti);
- Interviste e dichiarazioni sui media del responsabile Area Prove Roberto Ricci e di Paolo Mazzoli;
- Testi a cura della Fondazione Giovanni Agnelli e riflessioni sparse pubblicate dall’Associazione Treellle (materiali reperibili in internet, sul sito del MIUR, dell’INVALSI, di altri soggetti citati).
EQUITÀ?
Il compito del sistema di educazione, formazione e istruzione di un paese democratico è di conseguire effetti di equità.
Ciò che si ritiene “equo” è definito molto sommariamente nel documento da cui partiamo, e in altri: premessa ed esito di una scuola che voglia contribuire ad abbattere le differenze sociali. Un risultato che si consegue con una valutazione tautologicamente “equa”, basata su prove di valutazione uguali per tutta la platea scolastica.
L’equità è concetto impegnativo per le sue enormi sfumature culturali, si può ascrivere all’ambito della Morale e della Politica. Due contesti alti che possono definire comportamenti etici (ethos, nel suo significato originale), dettare norme di conduzione della vita del singolo e di convivenza sociale. Come tradurre in realtà fattuale tale anelito affidandone il compito alla sola scuola, in presenza di rapporti sociali di produzione profondamente ineguali, a cui non pone rimedio la politica? E come può proporselo un sistema di istruzione che, accusato di perpetuare le differenze di classe, di non promuovere forme di mobilità fra generazioni, viene spinto verso pratiche ispirate all’individualismo nella prestazione, al cooperativismo solo strumentale al risultato, all’enfatizzazione dell’utile, alla didattica per competenze sempre a prova?
Chiacchierare di equità serve a sedurre il popolo bue (si chiama operazione di consenso virata al dominio ideologico sul subalterno culturale), a conquistare le platee degli insegnanti, intellettuali a mezzo servizio, data la loro marginalità in tutte queste procedure valutative, spesso operatori del teaching to test, ma comunque organici, utilissimi a fare da cassa di risonanza alle sirene ministeriali e del think–tank invalsiano.
AUTONOMIA?
La valutazione centralizzata è una naturale conseguenza dell’autonomia.
L’autonomia concessa, octroyée, come si diceva per le vecchie carte costituzionali gentilmente concesse da regnanti assoluti, per il suo ideatore (Luigi Berlinguer) doveva portare con sé la valutazione come controllo. Nel sistema pubblico sono poi arrivati a dettare la linea Bassanini e Brunetta. Nonostante qualche progressivo depotenziamento delle norme previste da un legislatore animato dalla vis efficientista e apparentemente anti-burocratica, il controllo del sistema scolastico ha continuato ad essere perpetrato. Via INVALSI, nella confusione fra valutazione degli apprendimenti e verifica delle condizioni di funzionamento del sistema scolastico.
Il ricatto perpetrato dal sistema premiale rompe ogni patto fra i ruoli; la pervicace induzione a produrre progetti etero-diretti, autovalutazioni fittizie, iniziative di promozione della scuola sul mercato delle iscrizioni, è un’ossessione. Quando il sistema era burocratico discendente, nelle sue pieghe, sono nate esperienze importanti frutto dell’immaginario e della cultura di base, tradotti poi in provvedimenti legislativi (inclusione, tempo pieno, sperimentazioni nelle superiori, nella scuola dell’infanzia). Oggi un altro tipo di burocrazia – orizzontale? – drena tutto il tempo dei docenti e dei dirigenti nella compilazione di decine di format, questionari, schede, piani in lavoro, in meta-modelli per valutare i modelli medesimi!
Una buona autonomia, in grado di darsi una propria norma di comportamento, ha bisogno di buone condizioni, queste sì garantite centralmente: classi con piccoli numeri, spazi grandi, attrezzati, sicuri; stipendi dignitosi al tabellare, non integrati da prebende; finanziamenti “liberi”, utilizzabili a fini dettati dalla progettualità locale, caratterizzata dalle differenze territoriali.
CERTIFICARE?
Il 2017 è l’anno della piena investitura legislativa per l’INVALSI e dell’attribuzione di un nuovo, importante mandato istituzionale: non più solo rilevazioni nazionali di sistema, ma anche valutazione e certificazione di alcune competenze del singolo studente.
L’INVALSI valuterà e certificherà le competenze di lingua madre, matematica e lingua inglese attribuendo ad esse un livello descrittivo in una scala da 1 a 5. In fondo, afferma Paolo Mazzoli (Direttore Generale dell’INVALSI), cosa significano “in concreto un 6 in Italiano, un 4 in Matematica, un 8 in Inglese?”. Finalmente l’INVALSI sottrarrà a quegli impuniti (le punizioni verranno, per ora solo merito e demerito) di insegnanti l’arbitrio della valutazione rudimentale, soggettiva, autoreferenziale.
Una scheda di certificazione delle competenze, su carta intestata dell’INVALSI e a firma proprio del suo Direttore Generale, sarà allegata al nuovo “curriculum dello studente” (art. 21 D.Lgs. 62/17), in occasione degli esami di stato. La lenta dissoluzione nell’acido del titolo di studio, appare evidente nel decreto licenziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali l’8 gennaio scorso, di concerto con il MIUR. Concerto ad un solo strumento, è evidente: l’ente coordinatore sulle procedure della certificazione sarà l’ANPAL, agenzia per il lavoro alle dirette dipendenze del Ministero; le competenze certificate dall’INVALSI saranno dai soggetti giocate per la richiesta di inserimento negli otto livelli delle qualifiche professionali (QNQ). La scuola ha già perso la partita dell’autonomia, è stata inscritta nel novero delle agenzie che formano al lavoro, nelle condizioni in cui questo si presenta sul mercato. Le otto competenze europee saranno valutate e certificate sì dai docenti (come recita la Guida), con i quattro livelli di giudizio previsti, ma la parte del leone la farà l’INVALSI.
SERIETÀ EPISTEMOLOGICA?
Le prove sono preparate da esperti, sia di base (insegnanti reclutati), sia accademici. Sono ben strutturate, affidabili e valide.
Il paradigma della omogeneizzazione coniugato con la standardizzazione – e dunque con una misurazione statistica assai problematica – non favorisce la ricerca, la serietà epistemologica con cui andrebbero indagate le discipline oggetto di valutazione. Perché, piaccia ancora o no, di discipline si tratta, dunque di organizzazioni storiche di conoscenze, frutto del passaggio dei paradigmi, dell’accumularsi delle tradizioni e dei tradimenti alle stesse, nonché della maniera per insegnarle. Della loro didattica, anche questa segnata da diversi passaggi culturali, come sempre sintesi di episteme e di opinione (la cosiddetta endoxa). L’INVALSI dichiara (lo si può leggere sui Rapporti annuali) che le prove sono preparate da insegnanti e successivamente, in più fasi selezionate perché siano in linea con le Indicazioni Nazionali e validabili statisticamente.
Se si scorre la manchette delle news sul sito dell’istituto si noteranno i bandi per selezionare gli autori delle prove. Una selezione che, tutta interna per criteri di accesso, prove di ammissione, corsi di preparazione, ecc, non ha nulla a che vedere con l’osservazione, la raccolta, lo studio di quel che davvero – nel loro quotidiano lavoro – gli insegnanti dei vari ordini producono. I quadri di riferimento che accompagnano i fascicoli delle prove appaiono molto auto-centrati, anche quando godono di alcuni riferimenti autorevoli (per l’Italiano qualche classico di linguistica testuale e di grammatica delle valenze che per altro i test non utilizzano; i lavori di Clotilde Pontecorvo e del suo gruppo che mai avrebbero potuto entrare in valutazioni a standard). Tullio De Mauro diede una mano ma ridimensionò la sua adesione iniziale, come si evince da una intervista pubblicata nell’ebook, a cura di Marco Ambra, “Teste e colli” (2015). Molto utilizzata dai Quadri di Riferimento (QdR) la letteratura di fonte OCSE.
In ogni caso, l’attività di ricerca dell’INVALSI non appare significativa (si veda nel sito ufficiale l’indice delle ricerche aperte e di archivio), molto centrata com’è su aspetti docimologico-statistici (calcolo del valore aggiunto, ricerca in atto su effetti di longitudinalità, indici di validazione, ecc). La stessa fondazione Agnelli mostra molte perplessità proprio all’incrocio fra tipologia di prove e performances indagate (“Le competenze. Una mappa per orientarsi” 2018, pp 144,145,146 passim; “La valutazione della scuola. A che cosa serve e perché è necessaria all’Italia” 2014, infra). Il passaggio da fattori attinenti la redditività in ambito economico ai processi di apprendimento, come il calcolo del valore aggiunto, appare problematica. Metafora, più che strumento di calcolo, per quel che la locuzione può suggerire, soprattutto quando diventa tutt’uno con il cosiddetto effetto-scuola: i processi di insegnamento-apprendimento depurati dagli elementi di contesto, lo studente come pura astrazione.
ESERCIZIO: SÌ O NO?
Esercitarsi alla prove non si deve e non si può.
Chi crede che addestrare ai test i propri alunni (è questo il termine corretto, anche se fastidioso) sia una pratica inutile, insegna una disciplina non coinvolta nei test, ad esempio la filosofia. Non insegnare una disciplina coinvolta nella rilevazione delle nuove literacies, può offrire l’agio di interpretare in maniera interdisciplinare i quesiti proposti. Di studiarli e rifletterci su con i propri studenti. È questa la creatività per un insegnante. Non quella piuttosto ironicamente richiamata dall’INVALSI al posto della parola “produttività”. Per quanto si cerchi di tendere come un elastico oltre ogni limite di senso alla parola “creatività”, la categoria della “utilità” risulta di poca pertinenza.
Ovviamente, molto più rapido (ed efficiente) è procedere per batterie di prove, oggi onnipresenti: dalla rete ai libri di testo. Che dire dei fondi PON spesi proprio per l’addestramento o per azioni di formazione ai test? Della spesa a carico delle famiglie per i manuali ad hoc? Imparare a catalogare gli esercizi per tipologia, ad annotare gli items ricorrenti, ad evidenziare immediatamente i distrattori, allenare la memoria visiva: tutte pratiche per una sicura riuscita al test. Ma anche i docenti di filosofia devono prestare attenzione. Il Sillabo (MIUR Orientamenti per l’apprendimento della Filosofia nella società della conoscenza, 2018)) presenta semplificazioni al limite del ridicolo; lo schemino che incastra la disciplina in un modello informatico (p 7) serve a future prove standard.
LIBERTÀ?
L’INVALSI propone una didattica per competenze interessante e in gran parte condivisibile.
Dunque, come sappiamo da quando esistono le prove censuarie, l’INVALSI promuove una didattica, malgrado affermi nel documento che commentiamo, di non farlo. Certo, ci sono ormai eserciti di solerti esecutori – in buona o in cattiva fede – che si prodigano per far diventare il dispositivo-prove la naturale conclusione di espedienti didattici veloci, capovolti, flipped, compiti reali a altre diavolerie digitalmente garantite.
Ma che il ruolo invasivo dell’INVALSI, la ridda di micro provvedimenti di fonte ministeriale, il mantra delle competenze, riduca la libertà di insegnamento è sotto gli occhi di tutti. Il fatto è che questa evidenza è per molti un bene: finalmente ci si libera dal conservatorismo ex cathedra dei prof, dalla coercizione operata da maestri che ancora credono che studiare è una posizione delle schiena, come scriveva Gramsci ai suoi figli, che essere creativi è altro da essere produttivi.
Anni fa, si accorse di questa deriva anche la FLC-CGIL che intentò un ricorso al TAR Lazio contro il Regolamento 80/2013 sulla valutazione, proprio per vulnus dell’art 33 della Costituzione. Ma tant’è, è passata altra acqua… Oggi, anche il dispositivo Alternanza Scuola Lavoro fa del tutore aziendale un formatore e un valutatore, alternante, e dunque pari all’insegnante. E anche qui gioca la sua partita la certificazione di competenze.
EQUITÀ NEL PC?
L’introduzione del sistema computer based (CBT) toglie agli insegnanti il peso di inserire e correggere le prove. Serve agli alunni per il digital divide, consente la raccolta di dati oggettivi, non falsati da pratiche di cheating.
Se la questione digitale non fosse oggi serissima, per le sue ricadute culturali così imponenti da costituire un mutamento di tipo antropologico e prospettive di un futuro alla Philip Dick, potremmo commentare per puro folklore. Prove effettuate in più giorni, somministrazione che si protrae per più ore per mancanza di attrezzatura adeguata, istruzioni per conformare le tastiere, letterine amichevoli ai dirigenti perché si organizzino per superare le difficoltà: solito pressapochismo italico. Ma, come è costume dello staff dell’INVALSI, se si è sempre pronti a sottolineare le disfunzionalità della scuola, si evita l’autocritica: il comunicato stampa del 15 marzo scorso dava la situazione come sotto controllo, dando per scontata la collaborazione delle scuole (obbligate, ovviamente!). Che, come sia stata soprattutto la sfiducia verso i docenti e gli studenti a guidare questa scelta, è evidente.
Ma la questione è molto più seria della partita CBT. Come afferma l’epistemologo Mauro Ceruti, si assiste oggi al divorzio fra ideologia e tecnica, la prima diventa tecnologia – logos della tecnica – e inghiotte ogni sistema di valori di riferimento, diventando essa stessa un orizzonte valoriale. Tale orizzonte cambia i concetti di tempo, di spazio, di relazione. Lo strumento sopravanza lo scopo d’uso, si fa fine, annichilisce il suo utilizzatore invertendo la gerarchia fra uomo e macchina. L’equità, anche declinata alla maniera invalsiana, prevede menti colte, coltivate, critiche, capaci sempre di governare il mezzo. Di scegliere.
Concludiamo dicendo che molto andrebbe sottolineato e commentato intorno al tema del legame fra costruttivismo e competenze. Il pedagogista Benadusi e altri (nel testo citato più su a cura della Fondazione Agnelli) fa strame del portato teorico dei morti e di vivi: tutti reclutati, per estrapolazione indebita di parti dei loro lavoro, a sostegno delle competenze. Stessa sorte sta capitando a Gramsci, tirato per la giacchetta del sapere fare, del lavoro manuale, delle abilità competenti, importanti molto – se non di più – della conoscenza, dei saperi intellettuali. In realtà, da antesignano, anticipatore e visionario politico, Gramsci agli inizi del Novecento parlava di sapere incorporato, di lingua che è carne e spirito, di dignità del lavoro che è sempre intellettuale anche quando umile, e come tale va visto, per valorizzare la forza-lavoro in esso spesa, o per liberarsi del suo peso grazie al pensiero che quella forza esprime.
Insomma paradigmi della complessità, se non fosse inattuale affermarlo.
Rossella La tempa, Renata Puleo
28/04/2018 www.lacittafutura.it
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