Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie…
L’ultimo, mentre scrivo, si chiamava Nicola, aveva 26 anni e faceva il postino a tempo determinato. La mattina del 4 maggio, mentre portava la posta sullo scooter come ogni giorno, sole pioggia vento o neve che fosse, ha avuto un incidente sulla strada ed è morto.
È quasi impossibile tenere il conto degli incidenti mortali sul lavoro, perché, come in guerra, ogni giorno il bollettino aumenta. Il 30 aprile erano 220. Nella serata del 1 maggio, dopo commemorazioni e celebrazioni in tutta Italia, erano già saliti a 222. Con Nicola siamo oltre e quando uscirà questo articolo, purtroppo, quasi sicuramente, non sarà più lui l’ultimo.
Contando gli incidenti in itinere, il numero quasi raddoppia. Di alcuni, poi, non sapremo mai nemmeno che sono morti, soprattutto nelle campagne, dove caporalato e lavoro nero costringono migliaia di uomini e donne, soprattutto migranti, a condizioni di lavoro che sfiorano la schiavitù.
Il bilancio è impressionante e vergognoso, in aumento esponenziale rispetto allo stesso periodo degli anni scorsi: più 10% sul 2017, oltre 20% sul 2016. È evidente che la relativa minore incidenza negli anni passati era dovuta alla riduzione complessiva del lavoro durante la crisi. Tanto che il numero maggiore di incidenti avviene oggi proprio nelle regioni dove si sta ricominciando a lavorare a pieno regime: la Lombardia, il Veneto e il Piemonte sono i primi di questa macabra classifica. Questo avviene anche perché, negli anni, le condizioni di lavoro sono peggiorate, sia sul piano normativo che su quello degli investimenti in macchinari, impianti e organizzazione del lavoro. Così, anche laddove si riprende a lavorare, lo si fa, generalmente, con gli stessi impianti di prima (già obsoleti allora), ritmi e carichi più elevati e condizioni peggiori.
La Lombardia è la regione più industrializzata d’Italia e forse d’Europa, eppure si contano dall’inizio dell’anno 30 morti sul lavoro. A Milano, che si è candidata per diventare sede europea del farmaco e che vorrebbe essere all’avanguardia tra le capitali europee, si muore in fabbrica nelle sue periferie come 50 anni fa, soffocati dal gas come alla Lamina o saltati in aria come alla ECB di Treviglio il giorno di Pasqua. Oppure su un treno regionale da paese del Terzo Mondo, come quello dove viaggiano per andare al lavoro le tre donne morte nel deragliamento di Pioltello.
Soprattutto, ovunque, si scontano condizioni di ricatto maggiori, per effetto, da un lato, della crisi occupazionale di questi anni; dall’altro, più direttamente, a causa delle leggi approvate nel frattempo: dalla cancellazione dell’articolo 18 all’approvazione del Jobs act. Maggiore ricatto si traduce in minore libertà di denunciare condizioni non a norma o rifiutare di svolgere un lavoro giudicato a rischio. Vale per i lavoratori precari come per tutti gli altri, persino i delegati e gli Rls, sui quali in questi anni si è impropriamente scaricata molta parte delle irresponsabilità delle aziende. Proprio pochi giorni fa, un delegato di Vercelli della Fiom è stato licenziato per aver denunciato pubblicamente il mancato rispetto di norme di sicurezza nella azienda in cui lavora.
D’altro canto, in questi anni, è aumentata anche l’età pensionabile. Fa tanta rabbia leggere di un ragazzo che muore a 26 anni, come Nicola. Ma fa tanta rabbia anche leggere che un uomo pochi giorni fa a Palermo è morto cadendo dal ponteggio di un cantiere edile a 69 anni. Se a questo si aggiunge, che negli anni, le istituzioni preposte al controllo sono state sottoposte agli stessi tagli di risorse e di personale che le leggi di bilancio, una dopo l’altra, hanno imposto a tutto il settore pubblico, non c’è da stupirsi molto che la situazione sia quella che è.
Ecco, appunto. Non c’è da stupirsi. E non c’è più nemmeno da indignarsi. Ora c’è soltanto da lottare.
Abbiamo già fatto i minuti di silenzio, le bandiere a mezz’asta, le condoglianze ai familiari. Siamo già andati ai funerali e abbiamo già dedicato il 1 maggio alla sicurezza sul lavoro. Bene, continueremo a farlo, ma non basta più. Serve promuovere da subito, con radicalità e continuità, una grande mobilitazione, fino allo sciopero generale di tutto il mondo del lavoro. Non è possibile continuare a piangere e contare i nostri morti e non è più nemmeno possibile limitarsi a scioperare quando avviene un incidente, in quella fabbrica, in quel territorio o in quella categoria, cosa che peraltro si fa a macchia di leopardo. Su questo, tutto il sindacato, nessuno escluso, è chiamato in causa: salute e sicurezza non possono essere variabili dipendenti dal profitto, mai, in nessun caso.
In primo luogo, lo pretendo dalla mia organizzazione, la Cgil: che si assuma, finalmente, l’impegno inderogabile di costituirsi parte civile in ogni incidente sul lavoro e che si batta a ogni livello affinché sia garantita sempre la certezza delle pene. E lanci una grande campagna in tutto il mondo del lavoro per rivendicare investimenti alle aziende, controlli da parte delle istituzioni e, finalmente, l’abrogazione del Jobs act e della legge Fornero su pensioni e articolo 18. E basta con i minuti di silenzio. Dichiari il prima possibile lo sciopero generale contro gli omicidi sul lavoro.
Omicidi, sì, chiamiamoli con il loro nome. Di bianco queste nostre morti, non hanno proprio niente.
NdA. Sto per inviare il testo dell’articolo alla redazione, mentre mi arriva la notizia dell’ennesimo omicidio. Un operaio di 19 anni, dipendente di una ditta in appalto nel cantiere navale di Monfalcone. Non è ancora noto il suo nome…
Eliana Como
Il Sindacato è un’altra cosa- Area di opposizione nella Cgil
12/05/2018 www.lacittafutura.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!