Riduzione orario di lavoro e/o reddito di cittadinanza?
Come ha osservato a ragione Lenin: “dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una ‘terza’ ideologia, e, d’altronde, un una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese” [1].
Dal punto di vista del marxismo, dal momento che le macchine, in quanto lavoro morto, non possono che riprodurre in media il valore corrispondente al tempo di lavoro impiegato a produrle, il plus-valore è interamente prodotto dal lavoro umano. Quest’ultimo, nella società capitalista, è tendenzialmente sfruttato dal capitalista a cui il proletario, non avendo altri mezzi per riprodursi, cede la propria capacità di lavoro. È, dunque, evidente che il reddito di cittadinanza, o qualsiasi forma di retribuzione slegata dallo svolgimento di una prestazione lavorativa, non può che essere attinto dal plus-valore prodotto essenzialmente mediante lo sfruttamento del lavoro salariato.
Quindi, per quanto privi di coscienza di classe i lavoratori, costretti a ritmi e orari di lavoro sempre più massacranti per arrivare alla fine del mese, non considerano generalmente con favore che una parte più o meno consistente di quanto è prodotto venga dato in cambio di nulla a chi non si impegna nell’attività produttiva. Tanto è vero che, nei paesi in cui tali forme di reddito slegate dal lavoro sono state elargite, hanno generalmente approfondito la frattura fra lavoratori e percettori del reddito.
Ad esempio nei ricchi paesi dell’Europa nord-occidentale, dove tali misure erano piuttosto diffuse fino a qualche anno fa, esse producevano una netta spaccatura tra la “sinistra radicale”, dell’area autonoma dei centri sociali e delle case occupate, generalmente anarchica, e gli operai e più in generale i lavoratori salariati. Questi ultimi tendevano a considerare i primi dei parassiti sociali e, quindi, nei fatti, dei nemici di classe. In tal modo, essendo ridotta ai minimi termini la sinistra comunista e marxista, fra i salariati e la stessa classe operaia era nettamente maggioritaria la prospettiva riformista e tradeunionista, portata avanti dagli intellettuali che i proletari avevano generalmente come punti di riferimento, ovvero i burocrati dei sindacati essenzialmente neocorporativi.
Del resto, anche indipendentemente dalla prospettiva revisionista portata in genere avanti dalle burocrazie sindacali, come osserva ancora Lenin: “si parla della spontaneità; ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all’ideologia borghese, (…), perché il movimento operaio spontaneo è il tradunionismo, (…) e il tradunionismo è l’asservimento ideologico degli operai alla borghesia”.
Dall’altra parte gli autonomi che vivevano del reddito tendevano ad accusare gli operai e, più in generale, i lavoratori salariati di essere responsabili della sopravvivenza del capitalismo, dal momento che se avessero smesso di lavorare e farsi sfruttare anche loro, il sistema sarebbe crollato. Naturalmente, considerando in genere Marx poco più che un cane morto, dimenticavano come il Moro di Treviri aveva sottolineato che basterebbero un paio di settimane in cui lavoratori cesserebbero di lavorare per mandare un paese in rovina. In tal caso, naturalmente, non solo gli operai, ma gli stessi autonomi non potrebbero più ricevere neanche un reddito di sussistenza.
Appare, quindi, evidente a chi giovasse questa profonda e insanabile divisione interna all’opposizione di sinistra, che in tal modo non era in grado in nessun modo di mettere in discussione il modo di produzione capitalistico. Infatti, da una parte vi era la “sinistra radicale”, necessariamente minoritaria, incapace di egemonizzare le masse, indispensabili per cambiare i rapporti di forza fra le classi sociali, e del tutto impossibilitata a bloccare la produzione, mettendo alle corde il capitale. Perciò il suo antagonismo tendeva a ridursi a saltuari scontri avventuristi con le forze dell’ordine o ad azioni dirette volte a colpire tutt’al più alcuni simboli del capitalismo, senza mettere minimamente in discussione il sistema.
D’altra parte il capitale investe nella produzione solo per ottenerne un profitto e, quindi, non è certo interessato a vederselo decurtare per poter garantire un reddito a chi non lavora. Proprio per questo non solo i redditi percepiti erano generalmente appena sufficiente per poter sopravvivere – non a caso diversi fruitori si vedevano costretti a vivere in case occupate – ma richiedevano un lungo, complicato e noiosissimo insieme di pratiche burocratiche, che necessitavano di un certo livello di specializzazione e un notevole dispendio di energia. Proprio perciò, al di là di casi particolari, a fruirne erano per lo più chi lo faceva per motivi ideologici, come gli autonomi, o dei lazzaroni usi a vivere di espedienti piuttosto che impegnarsi in un’occupazione stabile, al tempo in quei paesi facilmente ottenibile. Perciò una persona “normale”, dotata di sano buon senso umano, preferiva di gran lunga impegnare le proprie energie psicofisiche in un lavoro, piuttosto che impegnarle per continuare a percepire questa sorta di elemosina di Stato.
Proprio perciò, e questo era uno dei principali motivi per cui tali redditi erano concessi, la stragrande maggioranza delle persone preferiva accettare lavori malpagati, piuttosto che vivere in una condizione di pura sussistenza, dovendo per altro impegnarsi nella umiliante trafila burocratica per ricevere un’elemosina di Stato. Tanto è vero che, dal punto di vista storico, quando misure del genere, ovvero redditi minimi garantiti, erano stati concessi, erano state le stesse autorità – garanti degli interessi complessivi delle classi dominanti – a farli ritirare quanto prima, in quanto portavano i salari a un livello insufficiente per la riproduzione della forza–lavoro, dal momento che tendevano a ridurre i salari a una misura appena superiore alla pura sussistenza assicurata dal reddito. Dunque, la storia mostra che in realtà il reddito garantito ai disoccupati non solo non ha permesso a questi ultimi di rifiutare lavori mal retribuiti, come pretenderebbero i fautori, ma al contrario ha costretto l’intera massa dei lavoratori ad accettare qualsiasi lavoro pur di uscire dalla umiliante condizione del reddito di sussistenza.
Inoltre, anche nei paesi dell’Europa nord-occidentale la situazione è significativamente mutata con il venir meno della minaccia sovietica con la fine della guerra fredda. Non essendoci più bisogno di isolare le posizioni rivoluzionarie, garantendo un certo tenore di vita con misure volte a presentare lo Stato capitalista come uno “Stato sociale” o addirittura del benessere, le forme di reddito sono state utilizzate in modo più diretto contro gli interessi della classe lavoratrice nel suo complesso, lungo due direttrici principali.
La prima, sperimentata per lo più in Danimarca, è il modello della flexsecurity, in cui il reddito di sussistenza è stato sfruttato per dare ai padroni piena libertà di licenziamento e, dunque, di ripristinare un sistema sempre più dispotico nei luoghi di lavoro, visto che chi si mostra scontento è invitato a trovarsi un altro lavoro. L’altro modello è quello sperimentato in Germania dalla Socialdemocrazia tedesca che ha legato il mantenimento del sussidio di sussistenza all’accettazione di un qualsiasi lavoro, facendo entrare in auge anche in Europa il modello già sperimentato negli Usa del Jobs act, ovvero di quei lavoretti a tal punto sottopagati da favorire il formarsi di masse crescenti di working poors. Detto fra parentesi tali misure hanno consentito alla Germania quel dumping sociale che ne ha rilanciato l’economia ai danni degli altri paesi dell’Ue. Inoltre, hanno portato moltissimi elettori socialdemocratici a disertare le urne favorendo da allora il governo costante delle forze di centro-destra cristiano-democratiche e la formazione, per la prima volta dal secondo dopoguerra, di un partito apertamente di destra e xenofobo che rischia ora di contendere alla Spd il secondo posto.
Infine la politica del Jobs act ha fatto scuola ed è stata introdotta dal governo “amico” dei sindacati confederali, quindi senza proteste di rilievo anche in Italia. Dunque da noi sono stati introdotti dagli ultimi governi gli aspetti peggiori delle controriforme del lavoro danese e tedesco, senza nemmeno il contentino del reddito di sussistenza, che è così bastato ai 5 Stelle per conquistarsi una parte significativa dell’ex elettorato socialdemocratico.
Si potrebbe obiettare che, in tutti i casi citati, si è discusso solo del modello “socialdemocratico” – nei fatti social-liberista – del reddito senza considerare le più significative formule proposte dalla “sinistra radicale”. A tale prevedibile obiezione si potrebbe facilmente rispondere che nel primo caso abbiamo le forme di sostegno al reddito reali, nel secondo le forme idealistiche e/o utopiste. Inoltre, tornando alla citazione iniziale occorre sottolineare che le proposte “radicali” tendono a radicalizzare, da un punto di vista meramente quantitativo, una misura economica teorizzata proprio dai maître à penser del pensiero neoliberista, in primo luogo il suo massimo esponente dal punto di vista economico: Milton Friedman e il maggiore ideologo Friedrich von Hayek.
In effetti, tanto i neoliberisti quanto i sostenitori di “sinistra” del reddito partono dagli stessi presupposti ideologici borghesi, antitetici al marxismo. In primo luogo partono dal presupposto che la legge del valore teorizzata da Marx, sviluppando l’economia classica, non sia più valida. Vendendo meno questa, viene meno sostanzialmente l’intero ragionamento della marxista critica dell’economia politica, visto che senza valore non c’è più neanche il plusvalore e, dunque, lo sfruttamento. Proprio per questo non si ragiona marxianamente in termini di salario, ma come fanno gli economisti neoclassici borghesi in termini di reddito.
Inoltre i “redditisti” tendono a considerare come un dato di fatto irreversibile la precarizzazione del lavoro e, quindi, facendo di necessità virtù considerano positivamente la stessa flessibilità imposta alla forza-lavoro. Allo stesso modo tendono a considerare residuale quello che si ostinano a definire, seguendo ancora l’ideologia borghese, lo Stato sociale – che in realtà non è altro che la componente indiretta del salario – ma considerano tale perdita se non positiva quantomeno necessaria, visto che da esso sono sempre più esclusi i “nuovi lavoratori”, che rappresenterebbero il futuro – anche in funzione antagonista – del mondo del lavoro. Infine, alle prospettive universaliste, proprie di tutta la tradizione di pensiero progressista, contrappongono – non a caso insieme ai massimi esponenti del neoliberismo – le teorie ultra individualiste. Per cui al posto dei diritti universali conquistati dopo decenni di sanguinosi conflitti dai lavoratori, in nome del principio di eguaglianza e fraternità, avremo un reddito dato a ogni individuo, o peggio a ogni cittadino –d escludendo così buona parte dei lavoratori extracomunitari – con il quale ognuno sarà libero di fare (o comprare) ciò che vuole.
Dunque una parte del salario – che in Marx è una categoria di per sé sociale – la componente indiretta, andrebbe suddivisa in parti uguali fra tutti i cittadini, compresi quindi i borghesi. In questa forma così radicale, tale soluzione non è supportata nemmeno dai più sfrenati ultra-liberisti, perché significherebbe redistribuire una parte del salario sociale, che già è appena sufficiente alla riproduzione della forza-lavoro nel suo complesso, alla borghesia o al sottoproletariato, rendendo alle lunghe impossibile la sopravvivenza dei lavoratori salariati e, di conseguenza, dell’intera società.
Abbiamo infine la posizione di chi, in modo decisamente più radicale, sostiene che le risorse per il reddito dovranno essere prese dai profitti e dalle rendite. Il che richiederebbe necessariamente un aspro conflitto sociale, che per avere speranze di successo necessiterebbe ben altri rapporti di forza. Si tratta a questo punto di capire se sia funzionale investire le limitare energie della sinistra di classe per costruire rapporti di forza e una successivo lungo e duro conflitto sociale per una misura che, se fosse realizzabile, renderebbe meno ingiusto il modo di produzione capitalistico fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato e sulla costituzione di un esercito di disoccupati e sottoccupati necessari a mantenere basso il prezzo della forza-lavoro.
Oppure, viene da chiedersi, se non sarebbe più razionale impiegare le limitate forze di cui si dispone – abbandonando le sirene dell’ideologia borghese e agendo invece sulla base di una visione del mondo marxista e comunista – per ridurre l’orario di lavoro a parità di salario e di ritmi. Del resto, mentre il primo obiettivo resta comunque nel migliore dei casi un’utopia, nel peggiore una distopia, tutto lo sviluppo a favore del proletariato moderno del conflitto fra capitale e forza lavoro ha portato alla progressiva riduzione della giornata lavorativa. Anche perché la prospettiva del lavorare meno, lavorare tutti – a parità di salario e ritmi – è una parola d’ordine che certamente favorisce la ricomposizione e l’unità d’azione di tutti i subalterni, certamente in misura maggiore della parola d’ordine di un reddito più o meno garantito.
Renato Caputo
Note
[1] Le citazioni di Lenin sono tratte dal Che fare?, Einaudi, Torino 1971, pp. 48-49.
Per approfondimenti sul reddito di cittadinanza si veda anche:
02/06/2018
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