Il declino dell’Italia che disprezza la scienza
Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un nuovo momento risorgimentale, in cui – grazie a un’inedita alleanza fra uomini di scienza e politici – l’Italia era in grado di competere alla pari con tutte le grandi potenze nei settori strategici più avanzati: nel settore energetico, con Mattei e Ippolito; nell’elettronica, con l’Olivetti; nello spazio; nella chimica delle materia plastiche; nella biomedicina e nella farmaceutica. Poi all’improvviso, all’inizio degli anni Sessanta, l’Italia sceglie di competere nel campo delle medie e basse tecnologie, facendo leva sul fatto che eravamo i più poveri tra i ricchi e quindi puntando sul basso costo del lavoro e sulla periodica svalutazione della lira. Una scelta dissennata, che ci ha condotto al declino.
Carlo Bernardini in conversazione con Pietro Greco, da MicroMega 5/2015
Da quasi trent’anni l’Italia è in una condizione di declino relativo: la ricchezza del nostro paese è cresciuta meno che nel resto d’Europa e in gran parte del mondo intero. Dopo il 2008 il declino italiano è diventato assoluto: il prodotto interno lordo italiano è diminuito addirittura del 10 per cento. Ma, cosa ancor più grave, il paese intero appare sempre più incapace di reagire. Questa crisi ha radici profonde. E molti, tra cui noi due, pensano che esse affondino in quella che potremmo definire «la questione scientifica». Siamo l’unico paese sia tra quelli di antica industrializzazione sia tra quelli a economia emergente (ma ormai emersa) che seguono un «modello di sviluppo senza ricerca». Il nostro sistema produttivo ha una forte vocazione per le tecnologie con poco o nessun valore di conoscenza aggiunto, mentre i mercati internazionali sono dominati proprio dai beni e dai servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunta. La domanda è: qual è l’origine di questa anomalia italiana? La domanda ammette molte risposte, naturalmente. Non c’è una causa unica. Ma, a mio avviso, la causa di gran lunga principale risiede nella natura della nostra borghesia, incapace, salvo eccezioni, di interpretare la modernità e sempre alla ricerca di soluzioni gattopardesche, in politica come in economia.
La borghesia italiana, che ha fatto il buono e il cattivo tempo nel paese già prima che il Risorgimento fosse compiuto, ha concepito i «valori» come beni patrimoniali a carattere fortemente ereditario e non come «prodotti» di una cultura operativa: si è comportata cioè come un’aristocrazia piuttosto che come un corpo di professionisti consapevoli dediti a procurare lavoro remunerativo al popolo, a sua volta concepito come una massa di contadini inurbati. Difficile pensare che una siffatta comunità potesse vivere l’innovazione come evoluzione culturale vantaggiosa. Le banche e il denaro diventano il solo referente del vivere in comune.
Tu, dunque, vedi l’origine dell’anomalia italiana nella sua borghesia reazionaria, poco orientata verso la sfida della produzione e dell’innovazione e molto attratta da stili di vita tipici di un’aristocrazia feudale, che vive di rendita, chiusa nel suo castello con la sua famiglia e si tramanda il feudo di padre in figlio. Il tema non è nuovo. E in effetti molti dei ragionamenti che facciamo oggi sull’arretratezza della borghesia italiana e sulla sua scarsa propensione per la cultura scientifica sono analoghi a quelli che facevano gli scienziati e altri intellettuali illuminati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Nulla, dunque, è cambiato nella borghesia italiana? Eppure ci sono stati grandi cambiamenti in questi ultimi centocinquant’anni. Per esempio: l’Italia da paese agricolo si è trasformato in un paese industriale e l’industria manifatturiera italiana è ora seconda solo a quella tedesca, in Europa.
Sì, cambiamenti ce ne sono stati, ma la memoria delle origini può essere una tara che non si cancella. Un «proprietario» che si trasforma in «funzionario» conserva l’idea di essere autorizzato a operare nei propri interessi. Nel nostro paese, sino all’avvento tardivo delle Cooperative, si è conservata l’idea che le aziende avessero un proprietario padrone e dei dipendenti stipendiati: l’idea di una proprietà collettiva con partecipazione agli utili non è mai passata, se non nel caso degli enti pubblici di ricerca a cui era concesso un autogoverno. È questo che ricorda più di ogni altra struttura la derivazione dall’attività agricola: padroni e braccianti che diventano dirigenti e impiegati. Espressioni come «impiegati di concetto», «funzionari», «inservienti», «commessi e servizi» eccetera ricordano la divisione del lavoro meglio di ogni mansionario. C’è chi sceglie e chi esegue. Il fatto che la gerarchia sia fatta a gradini alti vuol dire solo che c’è pochissimo travaso da una categoria all’altra. Non a caso, in Italia non ci sono mai state forme attive di intervento come i venture capitals che altrove hanno trasformato accidenti della produzione in innovazioni (Vincenzo Tiberio, a 26 anni, scoprì e pubblicò la scoperta della penicillina 45 anni prima di Fleming; ma nessuno lo capì perché l’idea di ricerca era molto povera in campo accademico).
Non tutta la borghesia e non tutti i tempi sono uguali. Dopo la seconda guerra mondiale c’è stato un nuovo momento risorgimentale, quando abbiamo cercato di competere alla pari con tutte le grandi potenze nei settori strategici più avanzati: nel settore energetico, con Mattei e Ippolito; nell’elettronica, con l’Olivetti che ha messo a punto il primo computer a transistor e il primo computer da tavolo al mondo; nello spazio, dove, grazie a Luigi Broglio, siamo stati i primi a mandare in orbita un satellite dopo le due superpotenze Urss e Usa; nella chimica delle materia plastiche, dove abbiamo acquisito il monopolio mondiale del polipropilene, più noto al grande pubblico con il nome commerciale di Moplen; nella biomedicina e nella farmaceutica, settori dove non avevamo nulla da invidiare. Questo momento si è realizzato grazie all’inedita alleanza tra uomini di scienza, primo tra tutti Edoardo Amaldi, politici, penso a Ugo La Malfa, e industriali, come Adriano Olivetti. Poi all’improvviso, all’inizio degli anni Sessanta, questa grande spinta innovativa è venuta meno. L’Italia sceglie di competere nel campo delle medie e basse tecnologie, facendo leva sul fatto che eravamo i più poveri tra i ricchi e quindi puntando sul basso costo del lavoro e sulla periodica svalutazione della lira. Perché?
Nel dopoguerra, le banche e gli operatori finanziari hanno dominato la scena. A questo si aggiunga che il Sessantotto ha prodotto una difficoltà di raccordo generazionale non piccola e molto dannosa per la convivenza, con la fioritura di pedagogie devianti che frustravano i «baroni» senza che gli studenti «movimentisti» ci guadagnassero alcunché di positivo. Il risultato è stato che il tessuto socio-culturale si è indebolito minando la maturazione evolutiva di una cultura dei processi gestionali. I rapporti sono rimasti quelli tra imprenditori-padroni e dipendenti-mano d’opera senza che la produzione desse luogo a meccanismi di crescita culturale.
Nell’Italia del dopoguerra, in quello che è stato definito il «secondo Risorgimento», una figura centrale non solo della fisica ma del rapporto tra scienza e società è stata una persona con cui tu hai molto collaborato, Edoardo Amaldi. Grazie anche alla sua spinta, non solo la scienza di questo nostro piccolo paese, ma anche una parte dell’industria italiana sembrava poter competere alla pari con quelle dei paesi più avanzati. Chi era Edoardo Amaldi?
La complessità della figura di Edoardo Amaldi nel mondo dei fisici italiani non è assolutamente nuova: già con il goriziano Pietro Blaserna e i suoi rapporti con la corte sabauda attraverso la regina si era stabilito un contatto scienza-politica senza precedenti, se si eccettuano gli interessi di Alfonso Sella. Amaldi apparteneva ai «ragazzi di via Panisperna» sin dal loro inizio per volontà di Orso Mario Corbino; era tra i più giovani: 7-8 anni meno dei celeberrimi Enrico Fermi e Franco Rasetti che costituivano il motore del gruppo chiaramente identificato da Corbino sin dall’inizio del Novecento. La carriera di Amaldi incomincia alla fine degli anni Venti del Novecento, sia come fisico sperimentale sia come diligente calcolatore di campi elettrici prodotti da elettroni quantizzati in atomi trattati con il modello di Thomas-Fermi insieme con la moglie Ginestra Giovene.
Quali sono state le sue intuizioni e le concrete realizzazioni più importanti?
Edoardo assume un ruolo eccezionale per la fisica italiana come superstite del gruppo rimasto in Italia. Visto che in Italia la fisica nucleare non avrebbe potuto essere competitiva per i costi degli indispensabili acceleratori di energie di qualche megaelettronvolt (MeV), Amaldi decide negli anni Quaranta di investire nella fisica dei raggi cosmici che si può fare con emulsioni nucleari e gruppi di analizzatori umani, «microscopisti scanners», opportunamente addestrati a seguire tracce osservando eventuali eventi lungo di esse. Con questa tecnica, il gruppo arriverà persino a osservare una «stella». Ossia un evento in cui lungo una traccia (il raggio primario) di grandissima energia si producono molti raggi secondari a partire da un dato punto preciso. Il medesimo processo che si dovrebbe verificare nel caso dell’annichilazione di un antiprotone. L’antiprotone era proprio la particella cui Emilio Segrè stava dando la caccia a Berkeley con il sincrotrone costruito a questo scopo. Amaldi convince i colleghi ad aspettare che Segrè faccia la sua scoperta per far sì che l’amministrazione americana conceda un ingente finanziamento per continuare una ricerca estremamente promettente. Segrè e collaboratori prenderanno per questo il Nobel, in una ridda di contestazioni soprattutto con l’italiano Oreste Piccioni, che aveva suggerito importanti modifiche del rivelatore originario; ma Amaldi e i suoi diverranno in ogni caso famosi per l’attività con i raggi cosmici sia con palloni stratosferici (G-Stack) equipaggiati con emulsioni nucleari ed emittenti-radio che ne consentissero il ripescaggio in mare con l’aiuto della marina militare italiana, sia con la costruzione di una capanna laboratorio sul Cervino (Plateau Rosà) equipaggiata con telescopi di contatori di Geiger 1 che mandavano impulsi in coincidenza temporale in un decodificatore elettronico detto «circuito di coincidenze alla Rossi» in onore del suo geniale ideatore Bruno Rossi, fisico veneziano emigrato negli Usa per motivi razziali.
Amaldi non era solo un grande scienziato. Fu anche un grande organizzatore di scienza. Possiamo dire che fu tra coloro che in Italia proposero e in parte realizzarono una lucida politica della ricerca.
Dunque, alla fine della guerra Edoardo Amaldi è quasi solo con giovani collaboratori (a parte i tre straordinari colleghi: Conversi, Pancini e Piccioni) e predispone un programma di «ricostruzione» molto ben congegnato, da cui di lì a poco nasceranno l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e il Cern di Ginevra. Amaldi è magna pars di questa evoluzione grazie alla sua notorietà internazionale e ai rapporti politici che riesce a procurarsi, specie in quella sinistra radicale illuminata che si appoggia ai repubblicani, a Ugo La Malfa, a Leone Cattani, a Ernesto Rossi e altri. Trova una sponda importante nel Cnr di Felice Ippolito che manifesta il suo interesse per l’Euratom e le centrali nucleari, sino a staccare un Cnrn (Consiglio nazionale delle ricerche nucleari) dal Cnr e a farne un ente autonomo di ricerca. Finirà con l’essere coinvolto nel famoso «processo Ippolito» iniziato nel 1963 (più precisamente nell’estate di quell’anno, su spinta silenziosa della socialdemocrazia di Giuseppe Saragat poco prima che questi divenisse presidente della Repubblica; in realtà il dibattimento venne sobillato dai produttori di energia elettrica, gestori privati che temevano la nazionalizzazione suggerita da Ippolito e altri 2). Ippolito fu condannato e scontò una pena abbreviata per un ripensamento dello stesso Saragat, per poi tornare all’università di Napoli all’inizio del 1970. Nel frattempo, Amaldi aveva messo in moto l’Infn, imponendo le sue regole: niente consiglio di amministrazione, ma consiglio scientifico con due vigilanti ministeriali senza potere di bloccare delibere programmatiche. Amaldi aveva, come tutti i grandi decisionisti, una diffidenza profonda per la burocrazia.
Anche i risultati scientifici di questa enorme attività erano notevoli. Amaldi è stato il promotore della «via italiana alle alte energie» di cui anche tu sei stato protagonista.
Sì, perché intanto erano miracolosamente partiti, a Frascati, i laboratori nazionali dell’Infn, che vedranno in funzione già nel 1959 il sincrotrone per elettroni da 1.100 MeV, a cui di lì a poco seguiranno l’anello di accumulazione AdA, su un’idea di Bruno Touschek, che Amaldi aveva invitato a Roma per manifesta e oculata stima, seguito dall’anello Adone, dedicato alla fisica dell’annichilazione elettrone-positrone a 3 gigaelettronvolt (GeV) nel centro di massa: queste due iniziative di Frascati metteranno in moto tutti i laboratori del mondo che pretenderanno di avere il loro anello (di cui l’Lhc di Ginevra sarà l’ultima gigantesca espressione).
Per dirla in due parole: le scelte di Amaldi hanno avuto conseguenze senza precedenti in tutta la comunità sovranazionale della fisica delle alte energie.
Qual era il tuo rapporto personale con Amaldi?
Amaldi si informava delle nuove leve dai «pedagogisti»: neolaureati che si occupavano di noi matricole (tipici: Molina, Querzoli, Stoppini negli anni Cinquanta). Noi avevamo fatto colpo (Cortellessa, Fabri e io in particolare) su Ageno 3 che teneva all’efficacia del «pedagogato» e faceva ponti d’oro a chi diventava un buon autodidatta: vedi il caso della lettura del Theoretische Physik (Fisica teorica) di Georg Joos, di cui poi Cortellessa fece una versione italiana (pubblicata). Poi, con il ritorno di Enrico Persico a Roma, mi giovai molto della sua simpatia e del fatto che mi volesse con sé nel gruppo teorico del nascente sincrotrone: e siamo al 1953. Con Persico avevamo in comune la passione per i gatti: dovizia di libri, foto e calendari! Mi ero intanto laureato con Bruno Ferretti, che non mi aveva in gran simpatia e mi scaricò a sua moglie Maria, persona con altri interessi che non capì i calcoli che avevo inventato per gli ioni molecolari di idrogeno, in verità modesti ma non da buttare. Persico mi recuperò, con l’approvazione di Amaldi, e mi mise subito al lavoro sugli acceleratori. Aveva già con sé Angelo Turrin e Franca Magistrelli, con i quali lavorava molto a calcoli numerici con tecniche che impiegavano reti elettriche per equazioni ellittiche in tre dimensioni. Io, dove possibile, inventavo trasformazioni (di Schwarz-Christoffel) per tradurre i concetti in formule.
Insieme a Mattei, a Ippolito, a Olivetti, a Marotta, a Natta e a molti (ma non moltissimi) altri, Amaldi è stato anche portatore di una lucida politica economica. L’idea era quella di fondare l’economia italiana sull’indipendenza energetica per rendere possibile e anche credibile la competitività italiana nei settori strategici delle tecnologie più avanzate: il nucleare, l’elettronica, lo spazio, la farmaceutica, la chimica fine. Il lavoro di Amaldi e di tanti altri subisce una pesante battuta d’arresto all’inizio degli anni Sessanta. Fu una sconfitta del suo progetto generale? Come ha letto Amaldi quegli avvenimenti?
Amaldi, pur in buoni rapporti con tutti, temeva che i gestori politici della Dc non fossero disponibili a lanciare l’Edison, l’Ansaldo e le società elettriche minori del Nord nel settore nucleare (Euratom, per l’Europa). Gli intrallazzi dei primi anni Sessanta sono innumerevoli e hanno richiesto un libro intero per essere descritti e valutati, con il «senno di poi». È estremamente istruttivo leggere, di Orazio Barrese, un noto giornalista della redazione romana dell’Ora di Palermo, il volume Un complotto nucleare, che uscì per l’editore Newton Compton poco dopo la fine del «processo Ippolito» che coinvolse a difesa dell’imputato, con pochissimi traditori, quasi tutta la comunità scientifica italiana. Certo, trasparì da subito che, essendo Ippolito un fautore autorevole della nazionalizzazione della produzione della energia elettrica (poi Enel), i politici non sarebbero stati con le mani in mano: e così avvenne con un devastante intervento pubblico di Saragat, non ancora presidente, che Edoardo Amaldi insultò in pubblico dandogli dell’«imbecille»; ma Saragat era in questo governato dai suoi amici americani che intendevano mantenere il controllo privato del settore visto che l’Italia all’epoca era quotata come il terzo produttore mondiale di energia nucleare.
Proviamo a fare dei nomi. L’elettronica fu affossata, alla morte di Olivetti e, non dimentichiamo, dell’ingegnere Mario Tchou, da Mediobanca (Cuccia) e da Valletta (Fiat) con l’assenso più o meno tacito di alcune correnti politiche soprattutto democristiane. Il nucleare civile fu affossato grazie all’iniziativa di Giuseppe Saragat, il leader dei socialdemocratici, che chiese e ottenne l’incriminazione di Ippolito. Chi dunque contrastò il progetto di Amaldi?
Certamente un ruolo molto attivo lo ebbero i senatori Dc Giovanni Spagnolli, Daniele Turani, Antonio Bussi e Girolamo Messeri, legati anche alla curia, che si prodigarono, nonostante il ministro fosse uno dei loro, Emilio Colombo. Su questi personaggi non c’è e non ci può essere letteratura perché sono insignificanti pedine di altri che non volevano esporsi. C’è poi una magistratura proterva, compromessa con consorterie siciliane, che parlerà senza freni contro l’imputato Ippolito. Insomma, tutto il processo, sino alla condanna inclusa, suona come una lezione data a scienziati e tecnici che tentano di inserire l’Italia nella strada della grande evoluzione tecnologica internazionale. I rapporti politici appaiono mafiosi, e forse lo erano.
Ci furono anche «nemici interni»? Intendo nemici interni alla comunità scientifica in generale e dei fisici in particolare?
I nemici principali, come si vede dalle testimonianze processuali, furono soprattutto Bruno Ferretti e Giampiero Puppi: Ferretti per un esibito moralismo che gli faceva biasimare l’Ippolito privato come uno spendaccione, dissipatore di pubblico denaro nelle missioni all’estero. Puppi era invece legato ai petrolieri per l’estrazione off-shore.
Devo dire che, almeno in una prima e breve fase, anche il giornale per il quale ho lavorato, l’Unità, non è stato parco di attacchi a Ippolito. Più in generale, che ruolo ha avuto la sinistra in quelle occasioni?
La sinistra era dalla parte di Ippolito; si tennero seminari alle Frattocchie per discutere del problema di un piano energetico convincente. Non ho sentito mai Amaldi lagnarsi delle scelte di allora del Pci; il problema semmai era altro e ci accomunava: stavano per cominciare i moti studenteschi.
Qual è stato il rapporto di Amaldi con la sinistra?
Amaldi non era disponibile all’idea di occuparsi personalmente di politica attiva. Tuttavia, era una di quelle persone che hanno un’idea precisa del bene pubblico, un civil servant, come dicono gli inglesi. Questo comporta che tutte le scelte che si fanno, liberamente ma con convinzione profonda, mirino a realizzare risultati che giovano a tutta la comunità nazionale ma ancor meglio internazionale. Questo modo di vedere era già consolidato nella Scuola di Roma e praticato da Fermi da vero leader.
Tu sei stato eletto in Senato come indipendente nelle liste del Pci. Qual era il rapporto del Pci con la scienza e con l’innovazione?
Per un breve intervallo il Pci ha avuto un buon rapporto con la scienza e l’innovazione. Ma poi, più o meno rapidamente, un antiscientismo diffuso attecchì durante i moti studenteschi; era fin troppo facile giocare su scienza e bomba atomica (industria militare) e sui fisici ricadevano responsabilità considerate evidenti. Spuntarono, dalla costola di Marcello Cini, che scavalcava il Pci verso nuovi estremismi, esercizi di dottrina marxista come L’Ape e l’Architetto, in collaborazione con Gianni Jona Lasinio, Michelangelo De Maria, Giovanni Ciccotti 4.
Nella sinistra che si andava dividendo ci sono stati nemici della scienza e dell’innovazione tecnologica?
Quando alcuni fisici di sinistra scoprirono che esisteva un’ampia letteratura in cui veniva rivelato che negli Stati Uniti la scienza era stata molto ostacolata dal sospetto legame con il comunismo – messo in piazza dal maccartismo – improvvisamente la stampa internazionale ne approfittò per rendere popolare questo sospetto. Non dimentichiamo che eravamo in un momento, dopo la fine della seconda guerra mondiale e la scomparsa del nazifascismo, in cui la «guerra fredda» tra Usa e Urss era ormai avviata. Era incominciata la caccia alle spie da parte dei servizi segreti, perché i programmi nucleari del Patto atlantico e quelli sovietici non avevano prodotto alcuna collaborazione tra le parti, una sola delle quali avrebbe voluto avere il diritto di chiamarsi «potenza atomica». Il dissidio si inasprì quando dalle bombe a fissione si passò agli ordigni termonucleari con qualche vantaggio per i sovietici che erano stati più efficienti degli americani. A quel punto l’Italia, che ovviamente apparteneva al blocco occidentale, subì un processo di rianalisi delle posizioni assunte dai suoi singoli scienziati. Il processo ebbe conseguenze sugli schieramenti politici interni al nostro paese; questo fece anche sì che la posizione politica dei governi, sebbene condizionata da pesanti interventi delle ambasciate straniere, si manifestasse e fosse resa pubblica. A molti italiani di sinistra questa situazione parve pericolosa per gli effetti sulla politica interna sicché il dibattito parlamentare ne venne influenzato. Apparendo subito evidente che molta opera di convincimento si poteva fare su basi tecniche anziché ideologiche, alcuni giovani scienziati ne approfittarono per modificare i loro orientamenti su questo piano. In particolare due fisici romani, Giovanni Mattioli e Massimo Scalia, puntarono la loro attività politica sul problema dei rischi dei programmi non militari (centrali elettriche, scorie di combustibile, materiali radioattivi destinati ad altri usi…). La situazione si inasprì e gli avversari dell’energia nucleare civile acquistarono molto credito attraverso giornali, radio e televisione. Risultava molto difficile compensare rischi presunti con affermazioni competenti. I successivi episodi di Tree Miles Islands e di Cˇernobyl’ bloccarono qualunque possibilità di ripensamento, come dimostrato anche da un referendum che impedì persino una collaborazione italo-francese sulla produzione di centrali di potenza. Le centrali italiane, ultima quella di Caorso, furono spente con l’intenzione di riportare il sito a «prato verde», mentre i francesi raggiunsero una frazione molto elevata della produzione di energia elettrica attraverso gli impianti nucleari. Ovviamente, Edoardo Amaldi in questa circostanza si schierò a favore del nucleare civile, come molti di noi fisici, ma non riuscì a impedire scelte e occasioni perdute in favore di impianti moderni.
Chi sono oggi a sinistra i nemici della scienza e dell’innovazione?
Nel migliore «spirito crociano» i problemi filosofici e pseudosociali – in realtà pregiudizi culturali di fondo – hanno avuto la meglio sui problemi tecnici. L’ignoranza diffusa è verificabile perfino nella persistenza dell’incomprensione popolare della differenza tra kilowatt e kilowattora. La discussione sulle cause e gli effetti dell’incedente di Cˇernobyl’ si rivelò disastrosa anche a sinistra, perché finì per apparire impossibile spiegare che mai un governo occidentale avrebbe consentito la realizzazione di reattori come gli Rbmk sovietici, che non usavano il raffreddamento ad acqua, facendo sì che la perdita di refrigerante portasse a un aumento del flusso dei neutroni lenti dal moderatore (a grafite), cosa che è stata la causa dell’incidente. Su questo problema i fisici avevano detto tutto quello che si poteva dire con estrema precisione e onestà, pubblicando su riviste che, nell’ambiente scientifico, avevano una grande diffusione (R. Wilson, B. Cohen). In Italia l’evento produsse la creazione della Sogin da parte dell’Enel, a spese del contribuente, che pagava questa nuova creatura addirittura sulla bolletta elettrica, sapendo che era destinata all’eliminazione di ogni tentazione nucleare. La Sogin è ancora oggi operativa, ma sono falliti i tentativi di mettere nel suo comitato consulenti fisici nucleari di accertata competenza che collaborassero con convinzione.
In questo clima, ovviamente, Edoardo Amaldi si sentiva a disagio e manteneva, per quanto possibile, buoni rapporti con i colleghi francesi, che godevano di sostegno e rispetto non solo in Francia.
La sinistra ha le sue colpe. Ma nulla di paragonabile a quelle delle forze di governo, dei gruppi dirigenti delle imprese e delle banche. Il peccato principale delle classi dirigenti italiane è stata la mancanza di lucidità. Un altro cambiamento strutturale che abbiamo avuto in anni recenti è il fenomeno della cosiddetta nuova globalizzazione, che ha ridisegnato la divisione del lavoro nel mondo. L’Italia, da essere il paese più povero tra i ricchi, si è ritrovata a competere con paesi molto più poveri, con un costo del lavoro decisamente più basso e con monete decisamente più deboli. Una classe dirigente minimamente avveduta avrebbe dovuto prendere atto della cosa e avviare un processo di cambiamento della specializzazione produttiva del sistema paese. Perché non è avvenuto?
La mancata partecipazione agli utili dei dipendenti ha fatto sì che la motivazione principale dell’aspirazione al lavoro fosse la retribuzione e il soddisfacimento di bisogni elementari: su questo si innesta la «concorrenza con i poveri» e il costo della globalizzazione: non importa chi fa il lavoro, basta che lo faccia alle condizioni offerte. Un’indagine fatta anni fa (ministro Luigi Berlinguer) mostrò chiaramente che la piccola e media impresa era nelle mani di gente con la sola licenza media ed esperta solo di commesse e fatture. La «grande cultura dominante» vuole solo garanzie sui servizi indispensabili al minor costo possibile. Peggio del crocianesimo, direi: questo è egocentrismo puro senza mezzi termini.
La questione nucleare ha diviso l’Italia anche in tempi recenti. E ha diviso anche la sinistra. Pensi che il nucleare sia stata un’occasione perduta o, anche alla luce degli scandali che hanno investito la realizzazione di grandi opere pubbliche, l’Italia è un paese inadatto allo sviluppo in grande stile di infrastrutture complesse come quelle dell’industria nucleare?
Naturalmente un tentativo più mirato, già subito dopo il processo Ippolito, fu quello di screditare tutte le attività che rafforzassero un possibile cambiamento dell’opinione pubblica a favore del nucleare civile: in quel periodo nacquero le illusioni su molte novità come le fonti rinnovabili, particolarmente il fotovoltaico e l’eolico. Anche se lo stesso Ippolito, grazie alla sua origine di geologo, aveva particolari simpatie per l’idroelettrico e il geotermico, la battaglia in cui si scontravano le valutazioni dei possibili rendimenti di queste fonti si scatenò, modificando profondamente la struttura e gli obiettivi dell’ente che sostituì il Cnen, cioé l’Enea (Ente nazionale per le energie alternative), in cui le «energie alternative» entravano addirittura nel titolo. In realtà, un’intesa rimase sempre ed era quella che giudicava l’industria elettromeccanica italiana come capace di qualificazione industriale al livello dei paesi più avanzati del mondo. Magra soddisfazione, per un personaggio come Edoardo Amaldi, che avrebbe voluto che questo portasse a vantaggi innovativi e non soltanto produttivi.
Il rimpianto più grande per molti di noi è stato però il fatto che Edoardo Amaldi non sia riuscito a trasferire il suo proverbiale decisionismo illuminato a esponenti delle nuove generazioni e su questo, forse, rifletterei attentamente.
Il cambiamento che tuttavia mi sembra fondamentale è stato il nuovo ruolo che hanno assunto la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico nel dopoguerra, quando sono diventati il motore dell’economia che oggi chiamiamo della conoscenza. Questo cambiamento è stato avvertito e addirittura inaugurato da scienziati dalla vista lunga: penso a Vannevar Bush, il consigliere scientifico di Roosevelt. In Italia uno scienziato dalla vista lunga è stato Edoardo Amaldi. Ma mentre sulla lungimiranza di Vannevar Bush gli Stati Uniti hanno fondato una moderna «politica della ricerca» ponendola a base della politica economica, l’Italia politica ha non solo ignorato ma addirittura osteggiato la lungimiranza di Amaldi. Perché?
Sì, i paesi del capitalismo avanzato come gli Stati Uniti hanno avuto nel dopoguerra l’occasione di seguire linee di sviluppo molto più coinvolgenti e promettenti. L’Italia ha patito molte frustrazioni per insufficienza culturale, pur essendo abitata da un piccolo gruppo di persone con idee e progetti che riguardano la comunità internazionale, riconosciute in tutto il mondo. Ma, se vogliamo, queste persone sono note a tutti meno che agli italiani, che sembrano avere «altro da fare». Mi sembra urgente recuperare la storia delle minoranze qualificate e produrla a beneficio di una maggioranza cieca, specie tra i politici attuali.
Il rapporto mancato tra scienza e innovazione, e dunque economia, in Italia ha, o ha anche, un’origine culturale, associata all’idealismo crociano che con la sua sostanziale avversione alla scienza ha dominato per larga parte del XX secolo? Ti faccio questa domanda ricordandoti, per quel che vale, la mia risposta: il crocianesimo in tempi moderni, spesso malinteso rispetto all’originale, è più l’effetto che una causa del declino del paese. È il frutto di un sistema produttivo che non chiede scienza e innovazione tecnologica. È il frutto, appunto, quasi una giustificazione teorica ex postdi chi ha voluto e imposto un «modello di sviluppo senza ricerca». Tu che ne pensi: è tutta colpa di don Benedetto?
Il crocianesimo è esistito: quindi va considerato come una deviazione sociale possibile, ma senza nascondere che è una sorta di espediente retorico antropocentrico che, come tutte le dottrine lontane dalla fenomenologia, serve a risolvere interrogativi inventati quanto le risposte, in un universo della retorica di cui si può fare a meno con vantaggio generale.
Molti sostengono – penso a un bel libro di Pierpaolo Antonello – che in Italia non abbia operato solo un idealismo antiscientifico di matrice crociana, ma anche un idealismo antiscientifico di sinistra. Concordi con questa analisi? Quanto ha pesato e pesa, eventualmente, questo idealismo di sinistra sulla cultura italiana e sulla crisi italiana?
La sinistra è nata da questa borghesia e ha confuso la scienza con qualcosa che metteva in pericolo i princìpi etici semplicemente associando l’innovazione con il capitalismo.
Quando è nato e/o quando ti sei imbattuto nell’idealismo antiscientifico di sinistra?
Quando ho capito che l’abissale ignoranza di gran parte della popolazione aveva consentito ad alcuni crociani di ricasco di inventare particolari concezioni salvifiche che eviterebbero al popolo di «farsi del male»: no all’uso di tecnologie energetiche che impieghino combustibili fossili anziché sorgenti naturali; no agli ogm; no all’Alta velocità eccetera. Di tutte queste cose è quasi impossibile ormai discutere perché la perdita di «consenso politico» è garantita dall’etica della paura dell’innovazione tecnologica. La stampa e gli altri mezzi di comunicazione sono ormai irrimediabilmente condizionati. Esemplare è il caso della dispendiosissima rinuncia politica alla centrale nucleare di Montalto di Castro per convertirla in impianti a gas dopo un referendum che metteva in crisi il governo socialista: fortunatamente Amaldi non vide lo scempio. È poi molto comune l’idea della origine antropica delle catastrofi naturali, mentre molta minor attenzione è dedicata alle tecnologie di interesse militare. E sì che gli usi più mostruosi della tecnologia derivano da uno sconsiderato commercio di armi: dalle mine antiuomo alla missilistica o all’uso di droni ai danni della popolazione civile.
Io non vedo alcun mutamento nella politica economica di fondo di «sviluppo senza ricerca» del nostro paese. Non solo la destra becera di Berlusconi, ma neanche i governi di Romano Prodi e il governo del tecnico Mario Monti, che pure è considerato un grande economista, hanno affrontato il vero problema: cambiare la specializzazione produttiva del sistema paese. Tu vedi cambiamenti in Renzi, possiamo avere fiducia nel futuro ora che a Palazzo Chigi c’è un giovane che ha certamente capacità e determinazione, ma forse non ha la lucidità e la cultura economica necessaria?
1 Si tratta di «telescopi» costituiti da semplici contatori Geiger, gli strumenti che si usano per misurare la radioattività. Questi «telescopi» non forniscono immagini ma si limitano a misurare l’intensità del segnale e la direzione approssimata del cielo da cui proviene.
2 Ippolito aveva in mente di mettere a punto, con il Cnrn che poi diventerà Cnen (Consiglio nazionale per l’energia nucleare), una via italiana all’energia nucleare, ovvero un processo di produzione di energia dall’atomo del tutto indipendente dal know-how di altri paesi. Fu accusato di aver utilizzato a fini privati beni dell’ente pubblico che dirigeva. Fu condannato a 11 anni di carcere. A molti, in Italia e all’estero, l’accusa apparve infondata e la condanna del tutto spropositata.
3 Mario Ageno, un grande fisico che lavorava nel gruppo di Amaldi all’Università di Roma. Stimolava i giovani a studiare da soli e a leggere non manuali ma libri che erano entrati o stavano entrando nella storia della fisica di frontiera.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!