L’Italia è tra i paesi più ignoranti al mondo.
Lo studio in oggetto sarà pubblicato in un libro di prossima pubblicazione (The perils of perception: why we are wrong about nearly everything), firmato dal direttore Ipsos nel Regno Unito Bobby Duffy, che andrà presto a dirigere il Policy Institute del King’s College di Londra. Il tutto si fonda su un’amplissima base di dati: 28 domande e 50mila interviste condotte in 13 Paesi, quelli inseriti fin dall’inizio da Ipsos all’interno della serie d’indagini Perils of perception, volta a indagare la distanza tra percezione dei cittadini e realtà dei fatti circa molti temi dalla grande rilevanza sociale. Dai livelli d’immigrazione a quelli della criminalità, dalla felicità dichiarata ai tassi di disoccupazione.
Un confronto dal quale l’Italia esce con le ossa rotte. In media gli italiani pensano ad esempio che il 49% della popolazione in età lavorativa sia disoccupato, quando in realtà al momento della domanda il dato era al 12%; crede che il 30% della popolazione sia composta da immigrati, e invece è il 7%; immagina che il 35% degli italiani sia affetto da diabete, quota che invece non supera il 5%.
Una performance disastrosa dunque, dove l’Italia è tallonata dagli Usa e dalla patria dell’Illuminismo, la Francia; al lato opposto troviamo la Svezia, la Germania e la Corea del sud come Paesi dove fatti e percezioni sono meno lontani. Certo, guardando i dati aggiornati al solo 2017 c’è chi fa peggio ancora dell’Italia, ma dobbiamo andare a scomodare Paesi radicalmente diversi dal nostro come il Sud Africa, il Brasile o le Filippine. Un’operazione poco rincuorante.
Com’è possibile che la stessa Italia che ha donato all’Occidente e poi al mondo il diritto, il metodo scientifico e il Rinascimento sia caduta così in basso? Sarebbe illusorio cercare una risposta esaustiva nello studio Ipsos, ma per Bobby Duff uno dei «pochissimi fattori» che sembra associato in modo robusto alle differenze tra i vari Stati – ad esempio tra il pessimo risultato italiano e il buon livello svedese – è rappresentato dal «modo in cui è emotivamente espressivo il Paese», cioè se i suoi cittadini tendono a discutere a voce alta, sono propensi al contatto fisico, ridono molto, eccetera. «Può sembrare un po’ strano – argomenta Duffy –, ma dobbiamo ricordare che le nostre supposizioni sono in parte emotive, mandano un messaggio su cosa ci preoccupa». Siamo preoccupati dall’immigrazione? Allora saremo anche propensi a credere che sia molto alta, anche se non è vero. «Le nostre percezioni errate – continua Duffy – riguardano le nostre emozioni tanto quanto la nostra ignoranza dei fatti, e quindi non è così sorprendente che Paesi emotivamente espressivi abbiano percezioni più esagerate».
Da una parte tutto questo suggerisce forse che per noi italiani sarebbe giusto iniziare a pensare se sappiamo gestire o meno le nostre emozioni quando hanno a che fare col contesto sociale, e lavorare per migliorare; il problema è però che la classe dirigente, anziché incaricarsi della gestione del problema, ormai lo sta cavalcando a fini elettorali.
D’altra parte, neanche è possibile pensare (né è auspicabile) di trasformare 60 milioni di italiani in altrettanti vulcaniani, inerti sul fronte emotivo. Come non è un caso che Paesi dalla performance assai migliore della nostra come Svezia, Germania e Corea del sud abbiano investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione ben più alti dei nostri: è qui che occorre puntare, oltre che sulla personale igiene emotiva. Come mostrano le più recenti indagini Ocse-Piaac, l’analfabetismo funzionale dilaga in Italia: il 70% dei residenti non ha il bagaglio culturale minimo “per svolgere in modo adeguato i compiti dell’età adulta”, e le persone con competenze bassissime sono il 27,9%. Nessuno fa peggio tra i Paesi osservati, e finché non miglioreremo su questo fronte anche i progressi in fatto di sviluppo sostenibile andranno molto a rilento.
Qualche esempio? Ad oggi circa il 90% degli italiani dice di essere a favore delle energie rinnovabili, ma di fatto oltre i ¾ delle contestazioni nel reparto energetico blocca proprio le fonti pulite. Oppure: l’88% di noi ritiene l’economia circolare un vantaggio per l’Italia, ma il 63% dei cittadini non ritiene che il rifiuto differenziato vada trattato attraverso processi industriali per riciclarlo. Non si tratta “solo” di effetto Nimby ma di paradossi evidenti, che hanno le loro fondamenta nella disinformazione come nella paura e nella sfiducia verso le istituzioni. E che bloccano le possibilità di sviluppo sostenibile, per tutti. Provare a sciogliere questi nodi significa affidarsi a un lavoro dai tempi lunghi, fatto di responsabilità e trasparenza da parte di media e politica, col coinvolgimento del mondo scientifico, e con la disponibilità dei cittadini a farsi coinvolgere. È un lavoro duro, ma non c’è altra scelta che provare a intraprenderlo. Ed è chiaro chi debba iniziare a fare la prima mossa: il pesce puzza sempre dalla testa.
Luca Aterini
2/9/2018 www.greenreport.it
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