Un solo disegno, con diversi interpreti
Articolo 5 del Decreto Lupi del 2014, Decreto Minniti del 2017 sulla sicurezza urbana, circolare Salvini del 1° Settembre 2018[1]. Tre provvedimenti che sono parte di un unico disegno, con interpreti diversi, che ha il duplice obiettivo di colpire qualunque autonomia sociale e di costruire popolazioni nemiche o da assistere, lasciando intatto il quadro strutturale dei problemi e delle disuguaglianze di accesso alla casa e delle politiche sociali e abitative assenti.
L’ossessione per la sicurezza e la tutela della proprietà privata a prescindere produce paura e povertà, non ha confini né di razza né di colore e non risolve alcun problema. Una volta aperta la diga dell’ordine pubblico, del decoro, della pulizia sociale, della legalità formale, si sa da dove si comincia a colpire (immigrati, neri, rom), ma non si sa dove si finisce. Prima o poi, anche altre parti della popolazione diventeranno oggetto di quelle politiche di repressione, in cui a prevalere è una sola idea: pulire la città e sterilizzare lo spazio pubblico da tutte quelle presenze ed attività considerate indecorose, allontanando la ‘brutta gente’, gli appartenenti alle rinnovate classi pericolose.Persone senza tetto, ambulanti, parcheggiatori senza permesso, artisti di strada, persone che chiedono l’elemosina, occupanti di abitazioni, immigrati presenti nello spazio pubblico o ospiti del sistema di accoglienza sono stati costruiti come soggetti problematici per l’ordine pubblico, da controllare.
Miseria della politica, ingiustizia sociale
Da questo cambiamento di paradigma politico e culturale bisogna muovere per comprendere cosa è avvenuto nel rapporto tra istituzioni e povertà nell’ultimo decennio. Nel dispiegamento della crisi economica in corso dal 2008, la politica ha scelto in maniera ampiamente maggioritaria di colpire chi veniva già investito dai cambiamenti in corso, accompagnando i processi di impoverimento materiale con processi di impoverimento politico ed istituzionale. Alla miseria economica crescente per una parte della popolazione si è associata la miseria crescente della politica, sempre più disinteressata a cambiare le tendenze in corso. E questo è accaduto mentre si sono approfondite le disuguaglianze economiche e sociali, perché non è vero che tutti si impoveriscono. Come ha scritto l’Istituto nazionale di statistica nell’indagine “Condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie” pubblicata il 6 Dicembre 2017, mentre tra il 2016 e l’anno precedente si è verificata una “significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie”, si è registrato, contemporaneamente, “un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale”. Dunque, in sintesi: più ricchezza complessiva ma più distanze economiche e, dunque, più poveri, più persone e famiglie a rischio di povertà.
È, questa, una tendenza chiarissima a livello italiano ed internazionale. È quella tendenza che una serie di studiosi e studiose hanno chiamato Robin Hood al contrario: un insieme di meccanismi economici, politici e finanziari di redistribuzione della ricchezza. Però, una redistribuzione dal basso verso l’alto. Togliere ai poveri, impoverendoli sempre più, per dare ai ricchi, rendendoli, così, non solo sempre più ricchi, ma anche sempre più forti. Si scrive “impoverimento” e “disuguaglianza”, si legge ingiustizia sociale ed economica. Laddove, con riferimento alla distribuzione dei redditi individuali equivalenti, il 20% più povero della popolazione dispone solo del 6,3% delle risorse totali, mentre il 20% più ricco possiede quasi il 40% del reddito totale, di cosa parliamo se non di ingiustizia?
La composizione della povertà
Per questo è necessario soffermarsi sul nesso povertà-disuguaglianze e farlo non solo in termini individuali, cioè guardando a redditi e consumi, ma anche in termini collettivi, cioè guardando ai servizi pubblici disponibili, la cui forza o debolezza influenza molto la vita di chi ha redditi più bassi della media.
Può essere utile, allora, mettere in fila anche altri dati. Ad esempio, quelli sull’accesso alle prestazioni sanitarie nei centri di analisi convenzionati, caratterizzati da tempo nelle regioni meridionali dal fatto che ad un certo punto dell’anno le agevolazioni con i ticket si bloccano e tutte le analisi si pagano a prezzo pieno. E i dati sulle politiche abitative pubbliche, praticamente azzerate dalla fine degli anni ’80. E poi ci sono i dati sulle remunerazioni del lavoro. Oltre alle condizioni del pubblico impiego non precario e di una parte delle imprese private, la situazione è molto difficile: sono conosciute le reali condizioni di lavoro e le basse remunerazioni di commesse, badanti, camerieri, addetti ai supermercati, lavoro ambulante e di tanti lavoratori e tante lavoratrici autonome.
Quali sono le popolazioni maggiormente esposte? Al di là di tutte le retoriche populiste e razziste, i dati dell’Istat del 2017 dicono che le aree più a rischio sono le famiglie a basso reddito con stranieri e quelle di anziane sole e giovani disoccupati. In questi tre casi, il rischio di povertà o esclusione riguarda circa la metà delle persone, mentre il valore medio nazionale è 28,7%. Dunque, le famiglie proletarie immigrate e quelle di anziani soli con pensioni basse e disoccupati giovani sono le più esposte all’impoverimento. Questo quadro si aggrava, poi, per le famiglie con più di 5 componenti e in Italia meridionale e nelle Isole. Il rischio di povertà in queste aree d’Italia è molto più alto della media, interessando in maniera rilevante, qui, anche le famiglie a basso reddito di italiani.
Contro l’ideologia della sicurezza imparare dai movimenti per l’abitare
E le alternative dove sono? Ad esempio, a chi viene sgomberato o subisce il sequestro della merce o dell’attrezzatura per lavorare come ambulante quale possibilità diversa viene proposta? Nessuna. Ai processi di impoverimento si risponde da anni con polizia, vigili urbani e retoriche sicuritarie. Nei discorsi pubblici e dell’azione politica ed amministrativa sono scomparsi gli obiettivi dell’uguaglianza e della giustizia. È rimasto solo lo spazio per l’ossessione per la sicurezza, la quale costruisce una strada senza uscita, che, in un circolo vizioso, chiede sempre più polizia, sempre più controllo, sempre più repressione, all’infinito.
Al contrario, le politiche dovrebbero intervenire per rimediare alla tendenza. Soprattutto per affrontare la deriva della disuguaglianza. È chiaro dai dati presentati che non è sufficiente sostenere la cosiddetta crescita economica. Anzi, la crescita si sta traducendo in un meccanismo che accentua le disuguaglianze. Sono necessari interventi che redistribuiscono la ricchezza ma nel senso della giustizia sociale, dunque dall’alto verso il basso, dalle aree ricche a quelle povere ed impoverite. E, insieme, c’è il tema della questione salariale: come è possibile che tante famiglie, specialmente di immigrati, percepiscano redditi tanto bassi da farle vivere in povertà o a rischio grave di povertà?
Redistribuzione dei redditi e messa in discussione del lavoro povero sono due ambiti da affrontare con politiche pubbliche e azioni sindacali, che rifiutino l’idea che la società italiana debba divenire sempre più una società di diseguali, cioè una società sempre più ingiusta.
Queste politiche possono muovere dal riconoscimento delle capacità di organizzazione delle stesse persone in povertà. È un esempio chiaro quello di chi vive in occupazioni. Invece di penalizzare questa parte della popolazione, come ha fatto l’articolo 5 del Decreto Lupi nel 2014 e annuncia il Ministro dell’Interno Matteo Salvini citando esplicitamente il Decreto Minniti, si può riconoscere, anche dal punto di vista istituzionale, la ricchezza di queste esperienze e le proposte che esse avanzano.
Una parte della popolazione ha cercato nelle pratiche collettive dei movimenti per l’abitare un’alternativa all’isolamento. L’autorganizzazione di politiche per la casa, anche attraverso il riutilizzo di immobili vuoti, ha proposto soluzioni concrete a parti della società che non possono aspettare. Una parte della popolazione colpita dalla crisi economico-finanziaria e dell’abitare si è organizzata in diverse città italiane per cercare alternative collettive, socializzando la propria condizione e la conoscenza dei problemi abitativi. I movimenti per l’abitare in Italia, come altri movimenti internazionali contro debito e indebitamento, hanno affermato, e continuano ad affermare, la centralità dei bisogni sociali nelle politiche pubbliche, indicando una prospettiva di trasformazione fondata sull’uguaglianza e non sull’incremento delle disparità, dei lavori poveri e delle persone e famiglie senza casa. Essi hanno indicato una prospettiva di giustizia sociale, radicalmente alternativa a quella basata sul nesso indebitamento-povertà-bisogni/diritti sociali negati. La difesa di queste esperienze, in presenza di una esplicita politica repressiva, sarà necessaria non solo per tutelare le persone che vi vivono, ma il diritto di tutte e tutti noi a vivere la propria autonomia sociale, liberi e libere dalla repressione o dalle elemosine di Stato.
[1]Il decreto Lupi fu convertito con la legge 80/2014 avente ad oggetto “misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/05/27/14G00092/sg. Il decreto Minniti è diventato legge 48/2017, con “disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/04/21/17G00060/sg. La circolare Salvini è stata firmata il 1° settembre 2018 dal dottor Matteo Piantedosi, capo gabinetto: http://www.interno.gov.it/sites/default/files/circolare_2018_0059445.pdf.
Gennaro Avallone
13/9/2018 http://effimera.org
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