Il tempo della comunicazione è tempo di cura

A che cosa ci riferiamo quando evochiamo la conversazione in medicina? Cerchiamo di evitare anzitutto dei fraintendimenti. Non stiamo parlando di benevoli e magari anche simpatici scambi di opinioni come avviene tra amici. La conversazione a cui ci riferiamo è quella professionale.Ciò vuol dire che è soggetta a regole ben precise. A cominciare da quella che non riserva questo tipo di scambi a coloro con i quali ci sentiamo più in sintonia e dei quali condividiamo valori e preferenze. È uno scambio che il professionista della cura riserva sia alle persone malate che gli sono emotivamente e spiritualmente vicine come a quelle che si situano agili antipodi delle sue preferenze personali. La conversazione professionale non è inoltre correlata con quello spirito che talvolta viene evocato con il termine “umanizzazione” della medicina: non è la caratteristica dei professionisti empatici e disposti in senso filantropico, ma il tratto costitutivo della “buona medicina” come la si concepisce ai nostri giorni.  Un efficace avvicinamento in senso positivo a ciò che si intende promuovere con la conversazione in medicina è offerto dal documento nato dalla conferenza di consenso promossa dall’Istituto Superiore di Sanità sul tema della Medicina Narrativa: Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico-assistenziale, 2014. Il centro di gravità delle diverse pratiche che si vanno diffondendo in medicina è stato individuato nella narrazione quale “strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura”. Ecco il cuore pulsante della conversazione: i “diversi punti di vista”. Sullo sfondo individuiamo il profilo della pluralità, e non di rado della conflittualità che ne deriva.

Da quando l’etica medica ha perso il monopolio, esercitato per secoli, che le permetteva di determinare ciò che nel processo di cura poteva/doveva essere perseguito, siamo entrati nell’ambito del pluralismo etico. Qualche studioso di bioetica si è spinto anche più in là dell’evocazione della pluralità dei riferimenti morali, affermando che ormai nelle questioni che dobbiamo affrontare in ambito clinico siamo spesso degli “stranieri morali”. Anche nell’ambito di una stessa cultura. È questa la tesi divulgata da Tristam Engelhardt: Manuale di bioetica (Il Saggiatore, 2000): L’estraneità morale non comporta necessariamente l’incomprensibilità reciproca, ma solo che l’altro sia vissuto come uno straniero in virtù delle sue posizioni morali e/o metafisiche. Possono esser stranieri morali anche due amici estremamente legati l’uno all’altro e perfino marito e moglie (questi, anzi, possono essere anche veri e propri nemici morali). Essere stranieri morali significa abitare due mondi morali diversi”.

Su queste diversità di visioni morali si esercita la parte più delicata della conversazione in medicina. A condizione, naturalmente, che l’opzione di fondo non sia quella di combattere i mondi morali diversi: con la repressione – quando si dispone del potere per farlo – o con la parola, sotto forma di polemica o di svalutazione sistematica della posizione altrui per esaltare la propria, ossia adottando un atteggiamento apologetico. La conversazione presuppone di considerare la diversità come una ricchezza e come un’opportunità. Ma richiede un impegno notevole. Viene in soccorso di chi si avventura in questi territori estremamente conflittuali una trama di regole sottostanti. Le più fondamentali sono i confini che traccia la legge, determinando quali comportamenti in una società, sono legali e quali configurano un reato. Quando gli ambiti della legalità e dell’illegalità sono chiaramente tracciati, la possibilità di scavalcarli non può essere oggetto di conversazione. Pensiamo alle diverse preferenze morali all’inizio e alla fine della vita (dalle varie modalità di procreazione medicalmente assistita agli interventi per accelerare la morte). Al professionista non si può chiedere di infrangere la legge, assumendone le conseguenze. L’attualità di questo atteggiamento di fondo è illustrata dalla legge 219, del 2107, che regola l’ambito dell’autonomia personale nelle decisioni cliniche dalle quali dipende la quantità e qualità della vita: un ambito soggetto a preferenze morali quanto mai soggettive. Il punto fondamentale è l’esplicito riconoscimento della facoltà di autodeterminazione nelle cure:  “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (art. 1/6)”.

Molte incertezze, che hanno animato dibattiti giuridici per anni e hanno  suscitato nei professionisti timori di infrangere la legge e di essere chiamati a risponderne, sono fugate dalla chiarezza del dettato legislativo. Ma ancor più significativo per la promozione della conversazione è che la legge stessa affermi che il tempo della comunicazione “è tempo di cura” e caldeggi la programmazione condivisa delle cure, grazie alla quale il malato può entrare attivamente e responsabilmente nel percorso di cura.  A rigore, le regole che qui affiorano sono di natura più deontologica che etica. Non dimentichiamo che la conversazione che intendiamo promuovere non è quella che nasce da un qualsiasi rapporto di gentilezza e umanità, ma si tratta di una conversazione “professionale”. L’aggettivo qualificativo è importante! Le divergenze su scelte e etiche sono previste nei codici deontologici, tanto dei medici quanto degli infermieri. I medici sono espliciti nel chiarire che il modello alternativo al ruolo dominante del medico – decisioni prese dal curante per il paziente – non è quello del semplice rovesciamento dei ruoli, ovvero: il malato decide e il medico esegue. Se permangono discrepanze insanabili, sia di natura clinica che etica, il medico si riserva di recedere: “Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione (Codice di deontologia medica, 2014, art. 22).

Gli infermieri hanno assunto una posizione analoga. Salvo che mettono esplicitamente in evidenza che, di fronte a posizioni non condivise, il primo passo dell’infermiere non è di retrocedere, ma di mettersi in ascolto delle ragioni che inducono il malato a prendere quella posizione. Solo se ascolto e negoziazione non danno i frutti sperati, l’infermiere avanza la “clausola di coscienza” – quando non sussistesse l’obiezione di coscienza prevista per legge – e rifiuta di accondiscendere alla richiesta: “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito e valuta con lui i bisogni assistenziali, anche al fine di esplicitare il livello di assistenza garantito e facilitarlo nell’esprimere le proprie scelte (art. 20). L’infermiere, nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, si impegna a trovare la soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse e persistesse una richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, si avvale della clausola di coscienza, facendosi garante delle prestazioni necessarie per l’incolumità e la vita dell’assistito (Codice deontologico dell’infermiere, 2009, art. 8)”.

Non ci illudiamo: una pratica di cura senza divergenze e conflitti non esiste. Anche perché spesso il conflitto, prima che rispetto a visioni della vita e del bene rappresentate da altri, nasce nel profondo di noi stessi, quando ci avviamo per la strada tortuosa della cura: ci accompagnano tante ambivalenze, delle quali non sempre siamo consapevoli. Siamo sfidati a conciliare valori contrastanti. Per risolvere questi conflitti non sono disponibili formule magiche; ma c’è un metodo e ci sono regole. Chiamiamola – se vogliamo – conversazione.

Sandro Spinsanti

31/10/2018 www.saluteinternazionale.info

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