È ora di iniziare a curare con l’educazione.

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Un’epidemia di malattie psichiatriche sembra aver colpito le scuole italiane. Negli ultimi anni sono raddoppiate le certificazioni di disabilità (legge 104), quadruplicati i Dsa (Disturbi specifici di apprendimento – legge 170/2010) e da ultimi sono dilagati i cosiddetti Bes (Bisogni educativi speciali).

Per salire su ciascuno di questi binari occorre una diagnosi neuropsichiatrica e quindi si ha diritto a un insegnante di sostegno o a un programma specifico con facilitazioni attinenti anche alle prove di verifica. Il risultato finale è che in una classe un bambino/adolescente su 4 è in media portatore di una diagnosi attinente a un deficit specifico.

Da ultimo la pratica sempre più diffusa nelle scuole di attivare degli screening a tappeto alla ricerca di carenze e disturbi di varia natura ha portato un’ulteriore impennata delle segnalazioni. Fra le tante osservazioni critiche che si possono sollevare rispetto a questo inquietante trend, due appaiono particolarmente urgenti.

La prima riguarda la naturale immaturità dei bambini e anche dei ragazzi, un’immaturità fisiologica, neurologica ed emotiva che li porta a comportamenti apparentemente insensati, ma quasi sempre compatibili con la loro età acerba. Confondere questa naturale differenza infantile con le patologie appare non solo un azzardo professionale, ma una vera e propria violazione dei diritti dei bambini.

La seconda questione riguarda la rinuncia della scuola ad utilizzare i propri specifici strumenti educativi. Di fatto succede che se un alunno mostra un disturbo quale vivacità, scarsa concentrazione, aggressività, disinteresse, invece di attivare i necessari dispositivi pedagogici si chiede alla famiglia di inviarlo immediatamente al servizio di neuropsichiatria per un controllo. In questo modo la scuola si sottrae alla propria vocazione diventando totalmente subalterna al sistema medico sanitario.

Lo stesso avviene per il bullismo, non più considerato un problema educativo, ma un affare di cui devono occuparsi le forze dell’ordine. In realtà i dispositivi pedagogici non mancano: il lavoro di gruppo, il mutuo insegnamento, i laboratori maieutici, la disposizione condivisa della classe piuttosto che quella frontale, tanto per citarne alcuni. La diagnosi neuropsichiatrica deve essere l’ultima spiaggia, non la prima scelta. Infine, appare del tutto evidente che le famiglie italiane hanno un grave problema nell’educazione dei figli. Sono diventate troppo emotive, nervose, con scarsissima coesione educativa fra i genitori stessi.

Lo scorso 17 maggio il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato una nota sui temi di inclusione trattando la questione BES dove appare propenso ad un superamento delle azioni fino ad ora compiute per questi alunni che presentano disagi e la relativa predisposizione del Piano Didattico Personalizzato.

La nota, non risulta aver superate la direttiva ministeriale 27/12/2012 e la Circolare n. 8/2013, cerca di orientare gli insegnanti e le istituzioni scolastiche a non burocratizzare il concetto di inclusione di alunni con bisogni educativi speciali, proprio per fornire un’inclusione completa e più equilibrata, aggiungendo che “personalizzare i percorsi di insegnamento-apprendimento non significa parcellizzare gli interventi e progettare percorsi differenti per ognuno degli alunni delle classi, quanto pensare alla classe, come una realtà composita in cui mettere in atto molteplici modalità metodologiche di insegnamento apprendimento, funzionali al successo formativo di tutti“.

Naturalmente so bene che bambini dislessici, disgrafici, discalculi, con caratteri difficili, con difficoltà ad apprendere, con storie personali e sociali drammatiche ce ne sono in quantità. So anche bene come la crisi economica aumenti certe difficoltà. Ma non riesco a vedere tutto questo dolore se non in chiave olistica e pedagogica. Non nego la presenza di “sintomi”, anzi ne riconosco tutta la serietà e la necessità di studio.

Ci vorrebbe forse più deontologia nei ricercatori (spesso il ricercatore è la sua ricerca), ma la questione principale è ermeneutica: la persona è una, non è fatta di parti, se tocchi un punto tocchi tutto. E’ bene ripensare da capo ai bisogni educativi di tutti.

Marilena Pallareti

Docente

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di nove,bre del periodico Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

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