Diario di uno sfruttamento

linee-meltemi-vicentini-viaggio-termine-onlus

Di fronte a un libro che rielabora una tesi di laurea si ha il timore di ritrovarsi persi tra riferimenti accademici, note a pié pagina e un linguaggio teorico di difficile comprensione.

Il libro di Zoe Vicentini è invece una piacevole sorpresa. Zoe, a partire da un buon impianto teorico, riesce a narrare in maniera chiara ed efficace il nuovo mondo della precarietà giovanile all’interno del terzo settore, senza annoiare il lettore. La ricerca di Zoe non risulta una ripetizione delle già tante teorie della classe precaria, o delle biografie un po’ sfigate di una vita precaria, e questo grazie al metodo di ricerca scelto.

L’autrice, infatti, ha deciso di sviluppare la sua ricerca tramite un’etnografia coperta, lavorando come “dialogatrice” per un mese per Agenzia Inganni, un’agenzia affiliata a una grande multinazionale che offre servizi a diverse Onlus della solidarietà. In questo modo l’analisi teorica si fonde con la narrazione dell’esperienza etnografica e il lavoro sul campo diventa il metodo più efficace per spiegare la vita precaria dei dialogatori. È dalle loro interviste che si delineano i nodi teorici del libro, sono le loro parole che ci fanno comprendere che cosa sia una vita precaria e ci riportano ai nodi irrisolti di una teoria – quanto di una pratica politica di organizzazione – della soggettivazione della classe precaria.

Zoe, così, ci racconta lo sfruttamento e il ricatto nel mondo del terzo settore e, in particolare, della solidarietà e della “carità legalizzata e organizzata”. Il libro spiega come si diventa dialogatori, l’assunzione, la formazione, il lavoro in street ed event, il rapporto tra colleghi, i turni… Ma soprattutto il libro narra la storia di un disincanto. Jennifer, Enea, Paolina, e tutti i dialogatori che attraversano il libro – così come la stessa autrice probabilmente – si sono avvicinati a questo lavoro credendo di poter supportare una causa, o in qualche modo di poter aiutare, non semplicemente lavorare per se stessi, pronti anche a sacrificare parte del loro salario per questo. Ma pagina dopo pagina emerge il vissuto del loro sfruttamento, quando realizzano di non essere pagati, di non supportare nessuna causa, ma di vendere un prodotto come un altro facendo leva sul senso di colpa.

È il momento di rottura: «Volevo aiutare il mondo… ora di questi enti non mi fido più» o «devi schiacciare i tuoi sogni di eroismo sulla schiena di qualcun altro… è un po’ una guerra». Il disincanto diventa sottrazione dal posto di lavoro e realizzazione dei propri diritti, almeno di quello basilare a una giusta paga. A questo dispositivo intrecciato di merito, valutazione continua di sé e degli altri, debito e promessa, ognuno reagisce però “a proprio modo”, e se degli «spiragli e spazi di liberazione» si intravedono, rimangono sempre delle scelte individuali che non si organizzano in rivendicazioni collettive.

Così nonostante la promessa si sia rotta per questi dialogatori non è chiaro come si possa creare spazio per la cooperazione improduttiva e l’organizzazione collettiva richiamate alla fine del libro. Del resto queste sono le domande che rimangono aperte per organizzare oggi qualsiasi tipo di lotta nel mondo del lavoro.

Vanessa Bilancetti

20/12/2018 www.dinamopress.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *