ECOTASSE O CARBON TAX: POVERTA’ E CLIMA
Di clima si cerca di parlarne il meno possibile, ma l’aria inquinata delle città si fa sentire e aggredisce l’olfatto anche dei più ostinati negazionisti. Non c’è solo CO2 nel bilancio delle emissioni dovute al traffico e alle caldaie delle metropoli, ma vengono sparsi anche elementi cancerogeni, più fastidiosamente monitorabili dal naso degli abitanti. Così, in maniera meno astratta, anche i trasporti, o meglio il binomio [auto individuale + petrolio], sono entrati nel conteggio della compromissione della nostra atmosfera. L’allarme fino ad ora era scattato solo in pieno inverno, quando smog, siccità, fumi schiacciati in superficie nelle giornate di bassa pressione allertavano i pendolari che riprendevano a respirare solo una volta tornati alle loro residenze fuori città. Per la verità, già le code, la congestione sulle strade, i prezzi del carburante, i parcheggi stracolmi, erano giunte a compromettere il sogno di cui si erano nutrite le passate generazioni, che ambivano alla patente come al raggiungimento di una prerogativa di maggiore libertà. Adesso siamo entrati in una nuova fase ed è il prodotto più emblematico dello sviluppo industriale e del consumo di massa che vede offuscarsi le sue prerogative e precludere un futuro in continuità con una ininterrotta espansione di un secolo e mezzo.
L’auto sembra il simbolo più esposto della fase attuale, almeno nella percezione immediata e di massa. I disordini francesi bloccano i percorsi stradali più che riempire le piazze. La manifattura per eccellenza, che sforna da decenni auto individuali e il mastodonte transcontinentale del petrolio, che ha impinguato le dinastie più opulente del secolo scorso, sono coperti da scandali, corruzioni, dimissioni di CEO, multe stratosferiche, crolli in borsa. C’è un clima attorno al binomio auto-petrolio che richiede ai ricchi e potenti di correre ai ripari e ai poveri e senza rappresentanza di protestare inceppando il funzionamento delle infrastrutture entro cui scorre il sangue di quel binomio (oleodotti, gasdotti, gallerie, gronde, caselli, varchi etc.). Costruttori e corporation energetiche non potevano certo rimanere inerti di fronte al declino del loro modello, posto sul banco degli imputati in quanto attentatore della qualità di vita, della salubrità e della sopravvivenza, financo dei ricchi, oltre che del reddito degli indigenti.
La reazione ad una situazione non messa in conto nelle alte sfere non si è fatta attendere: come da manuale, rapida ed esemplare repressione Oltralpe con poliziotti e idranti contro divise improvvisate da “gilet gialli”; “madamine” operose e piazze incitate da editorialisti e politici di fazioni diverse ma bizzarramente frammischiate, in una Torino d’altri tempi, vogliosa di trafori nelle Alpi dopo aver abbandonato la costruzione dei veicoli con cui superarle o attraversarle. Due aspetti collegati, ovvero due eventi che si pongono con modalità differenti, ma stanno su fronti diversi, se li interpretiamo sotto un profilo di “classe”.
La ribellione dei Gilets Jaunes(GJ), per quanto opinabile per le implicazioni ecologiche, nasce dal costo del carburante. A freddo il governo francese ha deciso un aumento rilevante (0,65 gasolio e 0,29 benzina) a partire dal 2019. Si è deciso di penalizzare il gasolio che finirà per costare di più dell’avversaria, a favoredel nuovo prezzo maggiorato alla pompa della benzina. L’aumento, più in generale, è stato collegato al prossimo passaggio alle energie rinnovabili. Ma, a mio parere, non è stato questo l’argomento della ribellione, anche se in questo periodo e in Europa in particolare, non vanno sottovalutati i tentativi di strumentalizzazione. Chi ha riempito strade e piazze manda a dire: essivotano a maggioranza, essidecidono nel lorogoverno – ricchi contro poveri – servicontro lavoratori, servi contro precari e disoccupati per l’aumento dei prezzi dei generi essenziali che servono per vivere. E’ come se i manifestanti dicessero, per usare un commento di Guglielmo Ragozzino: “sparirà prima il carburante o prima la naturadi noi poveri cristi?” Questo è un monito, un approccio magari non abbastanza lungimirante, ma che l’ambientalismo deve saper metabolizzare e da cui non può prescindere per rendere prioritaria la sfida per la giustizia climatica.
Guai se passasse la semplificazione per cui il consumo eccessivo, lo spreco di Natura, l’effetto serra e dunque la siccità e le inondazioni, il troppo caldo e il troppo freddo, l’aria cattiva e la puzza: tutta colpa del diesel, un male da estinguere, subito. E quelli di città, diversi, ricchi, che hanno studiato, hanno fatto e disfatto le leggi non hanno timori, non corrono pericoli. “Siamo invece noi, quelli dei camion, delle rotonde stradali, noi la colonna mobile dei consumi di tutta la Nazione che pagheremo i prezzi”. L’ambientalismo di Macron non può essere fatto a spese della povera gente. C’entrano anche la povertà, le tasse, il lavoro scarso e malpagato, le pensioni in fumo, la rabbia per l’abolizione dell’imposta patrimoniale e il fatto che ci sono cittadini ‘protetti’ ed ‘esposti’, cioè precari a vita o disoccupati o poveri per sempre.
A Katowice intanto, lontano dalle rotonde di Francia, il pianeta ha discusso i suoi problemi di sopravvivenza. Si tratta dell’ambiente, esaminato dagli esperti mondiali dell’IPCC, accompagnati dai politici di più alta credibilità e dai loro infaticabili sherpa nel corso del COP 24 polacco e del vertice sull’emigrazione indetto dall’Onu con il Global Compactmarocchino, firmato dalla Francia in pieno subbuglio e non dall’Italia, dai Visegrad e da Trump.
Le misure che le corporation hanno rapidamente convenuto sono quelle di prolungare oltre misura il sistema attuale ancora in ammortamento, personalizzando i veicoli con gli accessori più sofisticati (una grande società tedesca ha progettato una “stau-wagen”, dotata dei comfort per stare ore in coda!) e tenendo basso il prezzo del petrolio per scovare, nel frattempo, gli escamotage – come la guida automatica – per continuare a vendere un’auto a proprietà individuale, alimentabile ovunque da una colossale rete di distributori di carburante. Di conseguenza, il profondo cambiamento già in corso nel campo dei trasporti non va nominato per quello che drammaticamente rivelerebbe: una presa d’atto che la rapina della natura a vantaggio di pochi non ha ulteriormente futuro nemmeno per il vitello d’oro dell’automobile. Così, per non rinnegare le quattroruote, in Italia veniamo imboniti dal trio Conte DiMaio Salvini di “ecotasse”, balzelli, superbolli, pedaggi, “bonus-malus”, emissioni/Km, che confondono anche i più attenti osservatori. Ma – attenzione! – si tratta sempre di misure fiscali messe sulle spalle dei consumatori, autentiche “carbon tax” evase all’origine e caricate senza distinzione tanto sul commesso viaggiatore o sulla lavoratrice priva di trasporto pubblico, come sul magnate che si sposta con l’autista personale. A questo punto, non sarebbe male un po’ di chiarezza, dopo che la pantomima Salvini-DiMaio su ecotasse e Tav da un lato e la ribellione dei “gilet jaune” dall’altro ci hanno sbalzato da una vicenda penosa ad un quesito che richiede una matura riflessione e la ricerca di soluzioni a monte.
Per inquadrare l’intera questione energia – clima – trasporti, occorre considerare l’intero ciclo di vita (“dal pozzo alle ruote”) del prodotto mobilità. Se lo facciamo sotto il profilo fiscale esistono tasse molto più efficienti di quelle affibbiate a vari titoli, spesso discutibili, al consumatore finale. La più nota è la versione originale della carbon tax, così come proposta da James Hansen,storico climatologo edirettore del NASA Goddard Institute of Space Studies, percui alle compagnie che operanonel campo dei combustibili fossili verrebbe addebitata una“tassa sul carbonio” (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingressodel processo attivato dal carburante.L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero come dividendo su base procapite alla popolazioneche paga le tasse. Le somme verrebbero erogatesia aimprese che si occupano di efficienza energetica e energie rinnovabili, ma, soprattutto,finirebbero nelle tasche dei contribuenti“con minore impronta ecologica”. Si avrebbero effetti redistributivi verso la popolazione più indigente e sobria come risultato di profitti ridotti dei grandi inquinatori. A mio parere sarebbe questo l’unico modo per cui il pubblico potrebbe appoggiare una carbon tax, dato che otterrebbe redistribuzione del reddito e riduzione progressiva delle emissioni senza che salga il prezzo del carburante da pagare alla pompa. Ciò varrebbe ad accelerare forme di mobilità, motorizzazione e vettori energetici migliorativi e sostitutivi rispetto a quelli dell’era del petrolio e verrebbeaccompagnato dalla eliminazione progressiva delle attuali sovvenzioni all’industria deicombustibili fossili(in Italia si tratta di14,8 miliardi di euro nell’ultimo anno, il doppio dello stanziamento per il cosiddetto reddito di cittadinanza!). Le dimensioni dei dividendi pro-capite sono quelle di un effettivo reddito di cittadinanza, dato in forma di nuovo welfare, qualità della vita, salute e, magari, sostegno alla riduzione dell’orario a parità di reddito.
Sarà arduo far passare la carbon tax, ma il negazionismoclimatico mostra prime brecce. Negli ultimi mesi la questione del passaggio dai veicoli a propulsione tradizionale a quelli elettrici è venuta fortemente alla ribalta nel mondo sotto la forma dell’abbandono del motore a scoppio. Che esso – a benzina o gasolio – non faccia bene, lo sa chiunque si sia avvicinato ad un tubo di scappamento. La sua massiccia diffusione nell’ambiente in cui viviamo produce sia effetti cancerogeni dovuti principalmente a polveri sottili, sia un contributo all’aumento di temperatura dovuto alle emissioni di CO2. Se partiamo da considerazioni su inquinamento e clima, dobbiamo avere presente che il diesel è più pericoloso per i suoi effetti cancerogeni (anche se i veicoli a benzina sono tutt’altro che esenti da conseguenze nefaste), mentre per il clima la maggior perniciosità dei due carburanti si inverte. Tutto sommato, non risulta granché sostituire un motore a combustione all’altro (benzina al diesel), tranne che nel traffico cittadino. Affidare in prevalenza all’abbandono del diesel il superamento della crisi del binomio (auto individuale + petrolio) sarebbe ingannevole e, ancora una volta, il frutto di una lotta interna ai marchi automobilistici. Non dimentichiamo che un barile di petrolio (159 litri) finito in raffineria produce vari composti fra cui, per più di metà, benzina e gasolio per autotrazione, l’una e l’altro combustibili destinati al trasporto delle persone e delle merci, con quest’ultime che viaggiano spinte da motori esclusivamente diesel. Poichè buttare il gasolio è impensabile, è allora il motore a combustione a derivati di petrolio che ha raggiunto il suo limite, dato che per ogni litro di carburante consumato vengono emessi circa 2,5 chilogrammi di CO2. (media sommaria fra i vari tipi di carburante, GPL e Metano compresi).
Si capisce allora perché la riconversione verso l’elettrico dei veicoli su gomma emerga come soluzione di prospettiva. Considerando l’intero ciclo “dal pozzo alla ruota” (well to wheel) il motore elettrico (alimentato a batteria o rifornito a idrogeno con pile a combustibile) deve inevitabilmente essere il terminale di un sistema diffuso di trasformazione e stoccaggio di vettori energetici prodotti da fonti rinnovabili (onde evitare la combustione di fossili in centrale). Nell’obiettivo di avvicinare nel tempo la disponibilità di rinnovabili per alimentare i veicoli elettrici, è di notevole vantaggio la diffusione di motori ibridi, con la combinazione di motori a scoppio e a corrente, e il contemporaneo investimento nella riorganizzazione delle stazioni di servizio con colonnine di ricarica elettrica. Ma, non illudiamoci: non c’è prodigio di tecnologia che cancella i limiti invalicabili della natura e dei suoi tempi di rigenerazione. Se vogliamo letteralmente sopravvivere dobbiamo ridurre comunque il consumo di mobilità su mezzi individuali. E’ d’obbligo centrare il trasporto su una rete pubblica integrata alla pianificazione urbanistica, che riduca le sorgenti di traffico e di inquinamento e la cui spina dorsale sia costituita da mezzi di trasporto collettivi. Un progetto di tal fatta è parte del cambiamento di cui l’Europa si deve far portatrice e che già deve ispirare un programma all’altezza delle prossime elezioni.
Mario Agostinelli
22/1/2019 www.transform-italia.it
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