CAPITALISMO SENZA PADRONI
Non parleremo di padroni invisibili a causa della complessità delle relazioni produttive e finanziarie o del meccanismo in fondo impersonale che è l’economia capitalistica. Parliamo di padroni che spariscono dietro a scatole cinesi e matrioske solo per fare quel che gli pare, mentre lo stato e la politica stanno a guardare. Per questo continuiamo a raccontare queste storie, perché ognuno ci si possa riconoscere e organizzare di conseguenza.
Partiamo dall’ex zona industriale di Napoli, Gianturco, dove una volta c’erano fabbriche e ora ci sono magazzini all’ ingrosso, depositi di smistamento logistico e tanta disoccupazione. I dipendenti del call center Gestioncar per giorni sono stati in sciopero tentando di avere risposte da una proprietà… che non hanno mai conosciuto!
L’azienda è stata ceduta a febbraio dello scorso anno a dei compratori che i dipendenti non hanno mai visto, di cui non sanno neanche i nomi, né anagrafici né giuridici. L’unica cosa che sanno è che per due mesi non hanno ricevuto lo stipendio.
Ma andiamo con ordine. La Gestioncar nasce nel 2010 con una commessa di una multinazionale: Arval Lease Italia e si afferma nel settore automotive arrivando ad impiegare fino a 130 dipendenti. Fino al 2016 le cose vanno bene, o almeno così dicevano la maggior parte dei dipendenti rimasti, che ricordano positivamente la gestione di Gennaro Gargano, proprietario fino alla sua prematura scomparsa, che gli garantiva stipendi puntuali e una prospettiva di stabilità che sembrava destinata a durare. Certo, a prezzo di sacrifici non da poco, visto che chi è rimasto era inquadro al 6°, o al massimo 5°, livello del CCNL commercio, con stipendi che raggiungevano al massimo i 1000 euro al mese. E si parla di persone, per lo più donne, spesso con famiglia a carico. Ma si sa, di questi tempi sembra un privilegio, soprattutto al sud, dove la disoccupazione è tanta e con questi stipendi te la puoi pure cavare.
Poi però nel 2016 l’azienda perde la commessa e licenzia, attraverso vari incentivi economici e senza particolari frizioni numerosi lavoratori. Ne rimangono 28, che cominciano a lavorare su una commessa del Monte dei Paschi di Siena (ricevono telefonate dai clienti che hanno bisogno di assistenza, modalità in-bound). Non prima di aver svolto però sei settimane di formazione a Firenze (trasferta non pagata!) in cui imparare a gestire un sistema del tutto diverso da quello precedente. Ma si tratta di lavoratrici e lavoratori versatili, molto versatili. Così versatili che in realtà ormai i manager e la proprietà non ci mettono più nulla se non il conto in banca in cui intascare i profitti, lasciando nei fatti la gestione ai lavoratori. Non solo del processo lavorativo, ma anche di turni e ferie, soprattutto da quando a Febbraio cambia la proprietà. Già mesi prima l’amministrazione aveva infatti cominciato a distanziarsi, fino a quasi sparire del tutto. Cosa che avviene definitivamente quando subentra questo nuovo compratore che a sua volta si rivela una specie di fantasma, mentre continuano i tenui rapporti con i figli Gargano che rimangono in ogni caso proprietari dello stabile. Il lavoro procede però regolare perché, appunto, i lavoratori sono in grado di portarlo avanti da soli e perché il rapporto con il committente si mantiene inalterato, venendo gestito direttamente da loro.
La realtà, a dirla tutta, è ancor più complicata di così, perché tra loro e il committente non c’era solo la dirigenza fantasma della propria azienda, ma un’ulteriore azienda, la BsServices (ex Bassilichi), quella che ha vinto l’appalto della Monte dei Paschi e l’ha girato alla Gestioncar. Di fatto loro sono dei conteterzisti. Perché? “Perché assumere a Firenze alla fine non gli conviene. Gli stipendi costano di più e qui noi lavoriamo tantissimo, non troverebbero qualcuno che gli lavora a questi ritmi”. Eh sì, a questo serve questo gioco di scatole cinesi, o meglio italiane, europee, multinazionali. A creare una pressione competitiva al ribasso in grado di aggirare norme sul lavoro, sfruttare le differenze territoriali e poi utilizzarle anche contro i lavoratori relativamente tutelati per spingerli a rinunciare ai propri diritti. Questa è la norma del settore, quella che ha portato alla chiusura del sito di Roma di Almaviva e all’accordo al ribasso che ha mantenuto quello di Napoli.
Succede però che in questa giungla a volte nascano dei veri e propri mostri, situazioni talmente assurde da sfuggire del tutto al controllo. Il mese scorso i lavoratori sono stati alla fine licenziati. Senza spiegazioni, con lettere di licenziamento che riportavano mittenti ai cui indirizzi non si trovava nessuno. Ora sono seguiti dalla Camera Popolare del Lavoro di Napoli per non permettere che questa ingiustizia rimanga impunita.
E così arriviamo alla seconda vicenda: quella di Piazza Italia, la catena di abbigliamento nata in provincia di Napoli negli anni ’90 e diventata ormai internazionale. La catena nel 2016 decide di aprire un punto vendita nella prestigiosa via Luca Giordano del ricco quartiere Vomero di Napoli. Per farlo approfitta della crisi di un’altra azienda, Trony, che da quel punto vuole andarsene. Per questo ricorre alla formula dell’ “affitto di ramo di azienda”, che in teoria dovrebbe consistere nel prestito di quei beni strumentali necessari al proseguo dell’esercizio, che in questo caso però sono solo il locale e i lavoratori. Locale che tra l’altro non era neanche di Trony, che a sua volta lo aveva in affitto (e, per aggiungere ironia, lo subaffittava)!
Insomma, a un prezzo presumibilmente conveniente, Piazza Italia affitta un locale in affitto e già che c’è affitta anche 40 lavoratori già formati e con esperienza, che in quel posto ci lavorano da quasi vent’anni. Eh sì, perché la loro trafila è lunga, viene da quando prima di essere Trony quello era un punto di vendita FNAC. Insieme all’esperienza lavorativa, che li ha visti cambiare diversi compiti e mansioni, c’è però, purtroppo per l’azienda, l’esperienza sindacale e l’eredità di diritti che per le nuove generazioni di lavoratori sembrano un sogno. A quanto ci hanno raccontato i lavoratori, Piazza Italia era infatti abituata a fare un po’ come gli pare ricorrendo a contratti super flessibili (apprendistato, ecc.) nei negozi, alle classiche cooperative nei magazzini della logistica, interinali, ecc. Come una qualsiasi normale azienda di questa pazza Italia, insomma. Di punto in bianco si sono però ritrovati queste decine di lavoratori con il vecchio contratto a tempo indeterminato, che non si potevano permettere di trattare con l’arroganza e la sufficienza a cui erano abituati.
Un problema certo, ma alla fine non così grave quando hai 151 punti vendita in tutto il Paese e più di duemila dipendenti. E di cui soprattutto ti puoi sbarazzare facilmente se cambi idea, perché tanto questi lavoratori sono in affitto. Ed è proprio quello che sta succedendo nelle ultime settimane, quando di punto in bianco Piazza Italia ha deciso che non vuole più mantenere il punto vendita del Vomero. Ma nel frattempo la società da cui sono affittati i lavoratori è fallita e i dipendenti, che Piazza Italia non si vuole più sobbarcare, non hanno luogo dove tornare e si ritrovano per strada senza neanche il bisogno di essere licenziati!
Eppure in Italia, si sa, licenziare è difficile. O almeno questo è quello che ci hanno raccontato per anni Confindustria e i suoi governi, giustificando la rottamazione dei diritti conquistati dai lavoratori di questo paese con dure lotte. Dal Pacchetto Treu alle Legge 30 per culminare con il Jobs Act, il lavoro si è fatto sempre più “flessibile”, come dimostra il crollo degli indici di protezione misurati dagli organismi internazionali. Eppure le imprese rimangono inflessibilmente attaccate alle proprie esigenze. E così anche quando hai un contratto a tempo indeterminato ancora tutelato dall’articolo 18, con qualche adeguata manovra il padrone può mandarti di punto in bianco per strada. Anche se hai quasi sessant’anni, anche se i soldi l’azienda se li prende dagli enti pubblici. A garantirla sono, ancora una volta, i sistemi di appalti e subappalti con cui le responsabilità vengono oscurate, gli obblighi deviati e tutto eventualmente rimandato a tardive pronunce di costosi (per un lavoratore) tribunali.
È quello che rischia di succedere, nella nostra ultima realissima storia, a 7 lavoratori della De Luca Costruzioni, azienda che ha in appalto parte della costruzione della Linea Metro 6 di Napoli. Una linea entrata in funzione per un breve periodo con una tratta troppo corta per poter essere conveniente e che ora si sta ampliando attraverso gli investimenti del Fondo Europeo per lo Sviluppo, della Regione e dello Stato. A gestire questi soldi e intascare i profitti è il colosso delle costruzioni Ansaldo, che a sua volta appalta i lavori ad un’associazione temporanea di imprese che ha a capo la De Luca. Che a sua volta, guarda un po’, subappalta parte dei lavori ad altre ditte, salvo poi lamentarsi che il lavoro non c’è e che i propri dipendenti sono “in esubero”. Con questa scusa ha infatti aperto la procedura di crisi a fine Dicembre, che in crisi rischia di mettere solo i suoi 40 e più lavoratori. Nonostante, poi, ci fosse tutto il tempo per valutare la situazione insieme alle aziende appaltanti (l’Ansaldo), le istituzioni e i sindacati, dato anche che i lavori del cantiere ufficialmente non finiranno prima di Giugno, l’azienda ha deciso di punto in bianco di licenziare 7 di loro. Forzando così sui tempi della stessa procedura di licenziamento collettivo e agendo ancor prima del tavolo previsto con il Comune e la Regione il 21 Gennaio.
Nel cantiere continuano a lavorare gli operai dei subappalti, aggirando diritti e norme a tutela dei lavoratori, attaccando spesso alle 6 del mattino, più di un’ora prima dei loro colleghi e finendo oltre le 19 e venendo ovviamente pagati meno dei loro ex-colleghi. Costi risparmiati dall’azienda che intanto continua a intascare soldi pubblici e su cui lucrano ulteriori padroncini di altre piccole ditte. E che si aggiungono ad altre situazioni inaccettabili, come il continuo ritardo nel pagamento degli stipendi, a volte anche di mesi e mesi. Lo sanno bene proprio gli attuali licenziati, che a fine 2018 erano riusciti a farsi pagare sei degli otto mesi di arretrati dovuti. Chi sa che non sia stato anche per punirli di aver alzato la testa in questo modo che l’azienda li ha licenziati di punto in bianco…
Queste tre storie ci raccontano di media, grande e grandissima imprenditoria italiana che a partire dagli anni ’90 ha ricevuto il patentino per fare come gli pare sulla pelle dei lavoratori e sulle tasche di istituzioni pubbliche che sembrano lavarsene le mani, un cortocircuito che è esploso con la crisi del 2008 da quando le imprese sono alla perenne ricerca di extraprofitti a breve termine e sono emerse con più vigore, in tutto il paese, le situazioni di crisi aziendali pilotate, la proliferazione degli appalti e subappalti e l’uso distorto delle cooperative. Al nord nelle regioni più produttive come la Lombardia, il Veneto o l’Emilia ma anche al sud dove la crisi e i mancati investimenti privati e pubblici di questi anni hanno lasciato una situazione di particolare abbandono.
23/1/2019 http://clashcityworkers.org
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