Che cosa succede in Francia?
In questo momento il condizionamento esercitato dai mass media nella percezione e descrizione del movimento francese dei Gilet Jaunes è una pesante ipoteca che deforma e confonde l’opinione pubblica nell’effettuare una lettura obiettiva di tale fenomeno.
Ciò appare evidente ascoltando i telegiornali dell’ora di pranzo di domenica 20 gennaio 2019 nei quali si è affermato che sono state solo 6 mila le persone che hanno partecipato alla decima manifestazione settimanale consecutiva dei Gilet Jaunes. Niente di più falso: noi ci siamo stati e abbiamo partecipato ad un corteo affollatissimo che si è sviluppato come una marea umana, senza interruzioni, per oltre 10 km fra le strade della capitale francese. Non sono state 6 mila, ma oltre 80 mila le persone che hanno sfilato ad una temperatura fra gli zero e i meno due gradi, sotto la pioggia e il nevischio, senza sosta per oltre 4 ore.
Perché esiste una differenza così ampia fra questi numeri? Rispetto a due mesi fa, sembra quasi si voglia ridimensionare tale fenomeno fino ad ignorarlo lentamente col tempo, nonostante esso acquisti giorno dopo giorno più forza, anche numerica, e consenso. Forse si teme che le idee che quel movimento esprime possano diventare contagiose? La Francia, nel bene e nel male, ha sempre avuto la capacità di travalicare i propri confini nazionali con le sue idee. Molti cittadini in altri paesi europei come il Belgio, infatti, hanno già cominciato a seguire intelligentemente l’esempio dei Gilet, non tentando di strumentalizzarli a fini politici in vista delle elezioni europee come ha fatto Di Maio. Con questo non si vuole intendere che bisogna semplicemente saper “copiare” dai cugini francesi, perché «più rivoluzionari di tutti». Con una piccola delegazione del Centro Sociale Spartaco, siamo stati a Parigi non solo per vedere quello che ci impediscono di vedere ma anche per osservare da vicino differenze, rintracciare somiglianze, maturare spunti e intuizioni da poter tradurre, anche nel proprio piccolo e con tutte le specificità, nel contesto in cui operiamo. Questo breve racconto vuole essere un piccolo contributo in questa direzione.
Sono le 3.30, il telefono squilla, gli occhi si sbarrano. Sono stati chiusi solo per due ore, giusto il tempo di far assottigliare l’iride, distendere le palpebre e lasciare le pupille sognatrici muoversi frenetiche al di sotto. Mi alzo di scatto, raccolgo le mie cose e, senza togliere il pigiama, mi infilo i jeans sopra. Penso: «Farà un freddo cane lassù…». In un attimo sono sul pianerottolo a chiamare l’ascensore. Anche a Roma fa molto freddo e a piazza Don Bosco non c’è un’anima. Salgo in macchina con gli altri, uno di loro mi chiede sorpreso: «Mazza aasentito subbito er telefono, ma comafatto? De solito ce metti na cifra…». Non c’è nessuno per strada, pochissime macchine, in 25 minuti siamo a Fiumicino. Troviamo parcheggio, superiamo i controlli e attendiamo l’attesa dell’apertura del check-in. Non ho mai volato su Ari France, in realtà ho preso poche volte l’aereo, anche se questa volta volevo sbrigarmi a prenderlo, ho anche un po’ paura, ma non volevo perderlo. Non sono mai stato in Francia, è la mia prima volta, chissà se mi piacerà, se ci tornerò. Il sedile è scomodo, ma sufficiente per provare a riposare ancora un pò. Gli occhi si chiudono ancora, ma continuano a vedere. Arriviamo all’aeroporto Charles De Gaul per le 8.30. I corpi speciali dell’esercito ci guardano con nervosismo, come ad ognuno dei passanti. Sono armati fino ai denti, pronti al combattimento, attendono l’Isis. Ma i volti delle persone che incontriamo in metro, davanti alla cattedrale di Notre Dame, fra le strade del centro e lungo la Senna non ci sembrano spaventati, sembra quasi come se si fossero abituati a conviverci con la paura, anche se è forte la critica alle misure di sicurezza della legge di emergenza contro il terrorismo che ha visto l’introduzione di numerosi strumenti di controllo e repressione come i metal detector, all’ingresso di ogni luogo pubblico chiuso od aperto come ad esempio una biblioteca, oltre alle perquisizioni fisiche obbligatorie. Tali misure non solo non hanno contribuito a mettere in sicurezza al 100% la popolazione ma hanno anche comportato un aumento insostenibile del livello del controllo sociale per un paese democratico.
Dall’altra sponda della Senna vediamo il museo del Louvre, vicino a noi la statua di Diderot mentre lentamente, in lontananza, appaiono i primi blindati con i lampeggianti accesi, parcheggiati all’ingresso del ponte che porta in Place des Invalides, il luogo dove i Gilet hanno convocato la manifestazione. Ma giunti in prossimità ci accorgiamo che, oltre ai blindati, ci sono gli idranti e delle graticole alte 4 metri istallate per sbarrare l’accesso. Non capiamo perché ci impediscono di entrare nella piazza, la manifestazione è autorizzata. È la prima volta, dopo due mesi, che i Gilet hanno chiesto di trattare con la prefettura di Parigi per stabilire il percorso e le modalità di svolgimento del corteo. Nelle manifestazioni precedenti non c’è mai stata nessuna forma di interlocuzione fra i Gilet e le forze dell’ordine perché in Francia, diversamente da altri paesi come l’Italia, non esiste un corpo di polizia politica dedicato alla gestione della piazza, non c’è nessuna forma di mediazione, la contrapposizione è totale. Ma questa volta i Gilet hanno deciso diversamente perché la manifestazione è stata convocata per ricordare tutte le vittime degli scontri, 13 a partire dal 17 novembre 2018, giorno che ha visto i Gilet irrompere sulla scena politica con il I° Atto, 3 persone in gravissime condizioni di cui uno in coma, oltre alle 20 persone che hanno perso un occhio a causa dei colpi dei flashball, arma da guerra con proiettili di gomma impiegata contro i manifestanti il cui utilizzo è duramente contestato perché ritenuto inumano. Una signora di 70 anni è stata uccisa da uno di questi colpi rimbalzato mentre osservava e applaudiva i manifestanti dal suo balcone di casa. I Gilet avrebbero voluto dimostrare con un corteo pacifico e partecipato che, nonostante la brutalità delle forze dell’ordine, il vero obiettivo delle dimostrazioni sarebbe comunque rimasto il cambiamento della situazione politica ed economica.
Siamo costretti a svoltare sulla sinistra. Camminiamo per un isolato ma all’incrocio seguente troviamo un altro blindato che nega l’accesso alla via. Le persone camminano in ordine sparso. Dall’altra parte del marciapiede vediamo un gruppetto di 5 persone e una di queste ha un gilet giallo in tasca. Finalmente li abbiamo trovati. Rue de Constantine è sgombra, non passa una macchina, hanno chiuso tutto, si respira uno strano silenzio nell’aria. Continuiamo a camminare, dobbiamo svoltare a destra, verso Place des Invalides, ma ogni incrocio è bloccato dalle forze dell’ordine. Finalmente ci riusciamo, entriamo nella più affollata Rue de Grenelle. Ci fermiamo a un bar, prendiamo un caffè e vediamo nello schermo della televisione la diretta della manifestazione. In teoria siamo vicini e loro sono già lì, dobbiamo sbrigarci. La strada, però, è ancora lunga, tutti gli accessi sono bloccati. Alla fine, percorreremo 7 km per raggiungere il concentramento, 10 mila passi come mi ha segnalato l’applicazione del telefono, praticamente dopo quell’alzataccia, il viaggio e la camminata eravamo già stanchi morti. Ma è stata un’emozione entrare nella piazza, vedere sullo sfondo la Torre Eiffel, i cannoni a proteggere la tomba di Napoleone e il palazzo del museo degli invalidi di guerra, rivolti sul parco adiacente, e migliaia di giubbetti gialli al centro. Ci facciamo una foto ricordo ed entriamo nel mezzo per vedere le facce, leggere gli striscioni. Un ragazzo ci dà un volantino. Parla del fatto che il 22 gennaio sarà approvato un nuovo decreto sicurezza che prevede pene che possono arrivare fino a 3 anni di carcere e 50 mila euro di multa per travisamento o per chi indossa degli occhialini da piscina per difendersi dai fumi dei lacrimogeni, l’arresto immediato senza motivazione se la polizia crede che un manifestante ha delle intenzioni minacciose, anche se questo non ha commesso niente.
Ci salta subito all’occhio il parallelo con il decreto sicurezza Salvini che, ad esempio, ha portato il reato di blocco stradale, come intende fare Macron, a una pena di sei anni di reclusione. Il blocco stradale, infatti, è uno strumento per manifestare il dissenso politico molto efficace e per questo viene represso. È praticato dai Gilet a partire dagli esordi della protesta contro i rincari della benzina. I blocchi sono attuati durante la settimana in tutta la Francia e nell’area metropolitana di Parigi dove vivono 18 milioni di persone. Fra le 13 persone morte dall’inizio della protesta ce ne sono alcune che sono state uccise in una di queste occasioni, durante un blocco stradale.
Giusto il tempo di un kebab nelle vicinanze e il corteo parte. Sono le 12. Non ci sono spezzoni di gruppi organizzati, a un certo punto spunta qualche bandiera della CGT. Solo il movimento Non una di meno in Italia presenta questa caratteristica: sfila in modo unitario e senza spezzoni. Altra cosa che ci sorprende è l’assenza di megafoni, amplificazioni, impianti dai quali poter intervenire per spiegare le ragioni della protesta. Ci viene spiegato che sarebbe quasi superfluo perché si è innescato un vasto dibattito, quotidiano, diffuso e capillare, che riguarda tutti: adulti, giovani, anziani, le comunità; si riverbera a macchia d’olio nei caffè, nei bar, negli stadi, nelle strade, sui posti di lavoro, in tutta la Francia. La critica a Marcon, all’austerità e ai profitti privati delle grandi aziende sono il minimo comun denominatore. C’è in atto un cambio, anche di carattere culturale, determinato dalla determinazione con cui si vuole discutere di certi temi, e dalle nuove modalità e pratiche di cui ci serve per farlo. Non c’è qualcuno che guida in particolare l’apertura del corteo, si determina di volta in volta. Si cammina senza sosta scandendo slogan tutti insieme. C’è n’è uno che ci ha colpito particolarmente:
Emanuel Macron Emanuel Macron
Grosse tete de con Grossa testa di cazzo
On Viens te cherchez chez toi Ti veniamo a cercare a casa tua
Questo coro, cantato anche dai tifosi di calcio del Marsiglia, si ispira ad un’intervista in cui Macron ha dichiarato, rivolto ai suoi oppositori politici: «Che mi venissero a prendere a casa».
Inoltre, non ci sono, perlomeno fino ad oggi, leader affermati che guidano la protesta. Quelli citati sembrano essere frutto di creazioni mediatiche come Eric Drouet. A incidere sulla decisionalità dei percorsi è l’utilizzo della dark web e dei social network fra cui telegram. È lì che si sviluppa il dibattito, ma in maniera da far prevalere il ragionamento e non regolamenti rigidi come il Rousseau dei 5 stelle. Ogni giovedì viene decisa in rete la città dove si svolgerà la manifestazione dei Gilet. Viene sempre individuata una città diversa perché il movimento punta a una decentralizzazione democratica e culturale del paese, a raggiungere con le sue istanze ogni angolo della Francia, da sempre piegata sulla sacralità della nazione su cui poggia il privilegio dei poteri e delle risorse possedute da Parigi. I Gilet hanno raggiunto Marsiglia, Lione, Bordeaux, Nantes Tolosa, Rennes, città tradizionalmente tenute ai margini del dibattito pubblico nazionale. Nella stessa Parigi si sceglie ogni volta un quadrante diverso della città dove sfilare. È un movimento territoriale che investe la provincia, ma non per questo periferico. La mancanza di grandi intellettuali schierati a favore e di portavoce della protesta è per ora uno dei limiti dei Gilet, nonostante la classe intellettuale si stia fortemente interrogando sul fenomeno che vede già delle adesioni di molte Università del paese. Il movimento, infatti, tenta continuamente di trovare nuove forme organizzative.
Non è un movimento reazionario e di destra, chi dice questo sbaglia. Non è un movimento interclassista, così come non può definirsi di classe nel senso tradizionale del termine: i volti che vediamo intorno a noi sono quelli della gente normale, dei lavoratori, dei precari, degli operai, dei trasportatori, degli impiegati. Pezzi di ceti medi impoveriti che hanno dato il via alla protesta hanno stretto alleanze con quelli più popolari. Ma non ci sono tutti gli strati sociali nei Gilet Jaunes: mancano i ceti più abbienti, chi detiene la maggior parte della ricchezza prodotta dal paese.
Non è un movimento che fa uso della violenza in maniera premeditata: non abbiamo visto nemmeno un casco, un bastone, oggetti contundenti e da lancio, bottiglie incendiarie. È un movimento che risponde solo se viene attaccato.
Anche per la storia francese è un movimento nuovo: non siamo a maggio, ma nei mesi più freddi dell’anno.
Dopo 7 anni di pace sociale, quelli più duri della crisi, prima il movimento degli studenti e poi quelli dei ferrovieri avevano fatto sperare in un possibile cambiamento. La loro sconfitta ha inciso profondamente sulla politica francese. Per questo l’irrompere sulla scena politica dei Gilet Jaunes ha sorpreso tutti. La loro azione attualmente determina il dibattito politico, sono loro a dettare l’agenda politica. Allo stesso tempo, nessun partito è riuscito a mettersi alla guida del movimento. Il Front National ci ha provato più volte, ma senza successo. Attualmente Marine Le Pen afferma di non voler uscire più dall’Europa. Melanchion, invece, osserva senza strumentalizzare il movimento, non chiede nuove elezioni ma una nuova assemblea costituente per un’ipotetica sesta repubblica, indicando in ciò che sta accadendo l’essenza di un cambiamento profondo che ha bisogno di un nuovo patto e di nuove regole collettive. Perfino gli estremisti di destra hanno provato a infiltrarsi fra le file dei Gilet, ma sono stati puntualmente respinti dall’Action Antifasciste Paris Banlieue, oltre ad essere estremamente minoritari all’interno della società francese, in particolare a Parigi, per le idee professate come il progetto di ritornare ad un regime monarchico. Macron è schiacciato di conseguenza fra Melanchion e la Le Pen da una parte e l’impossibilità di fare delle concessioni ai manifestanti dall’altra. Se non potrà essere concesso niente il conflitto diverrà insanabile. Le dimissioni di Marcon sono, infatti, il primo obiettivo della protesta: possiamo ipotizzare che il movimento non si arresterà fino al raggiungimento di tale obiettivo. L’Europa lo ha accusato di voler fare come l’Italia nello sforare il deficit e Macron è dovuto tornare sui suoi passi. I vincoli di carattere economico e finanziario non gli permettono di intervenire attraverso il welfare. Anzi, sarà costretto a fare nuovi tagli alla spesa pubblica, come quello contenuto nella nuova proposta per la riforma delle pensioni, tema molto sentito dai francesi. I primi di gennaio Macron ha lanciato una manifestazione di sostegno per la riforma proprio di sabato, il 26 gennaio, illudendosi che il movimento dei Gilet si sarebbe esaurito per quella data. Ma, dopo oggi, è più forte che mai. Per l’XI° Atto Parigi vedrà quindi due manifestazioni contrapporsi, nei numeri e nelle proposte.
Perché tanta caparbietà, insistenza e determinazione nello scendere in piazza nonostante la pericolosità, i morti e i feriti? Un aspetto che ha contribuito in modo decisivo a rendere sistematica la protesta è stato il comportamento delle forze dell’ordine le quali, come prassi abituale al termine delle manifestazioni, circondano i manifestanti attaccandoli senza preavviso con flashball e lacrimogeni per disperderli. Per i francesi è stato oltrepassato un limite dal quale non è più possibile tornare in dietro per continuare a sopportare in silenzio. Questa dinamica si è ripetuta ogni volta che i Gilet sono scesi in piazza. Lo abbiamo visto con i nostri occhi durante il X° Atto. Abbiamo partecipato ad un corteo pacifico e determinato che ha percorso un tragitto durante il quale le forze dell’ordine non si sono mai avvistate. Siamo passati per la Tour de Montparnasse, attraversato Rue Des Rennes, fatto tappa a Place d’Italie. L’arrivo del corteo era previsto sempre a Place des Invalides, lì da dove era partito. Ma le forze dell’ordine hanno bloccato l’accesso e cominciato a sparare lacrimogeni, tenendo i manifestanti a distanza per impedirgli di avvicinarsi. Contemporaneamente, dalle altre strade laterali che si aprivano su quella principale attraversata dai manifestanti, sono arrivate improvvisamente molte unità delle forze dell’ordine che hanno cominciato anch’esse a sparare lacrimogeni all’altezza della fermata di Saint Francois Xavier. Il corteo di 80 mila persone è stato spezzato così in molti cortei, autonomi fra di loro, che hanno attraversato le vie dei quartieri più importanti di Parigi, rincorsi senza sosta dalle forze dell’ordine che hanno tentato in tutti i modi di chiudere ogni via di fuga ai manifestanti. Molti sono stati i feriti, fra cui due in condizioni gravi, e 24 gli arresti. Ma è proprio questo meccanismo che ha prodotto l’indignazione di ampi strati dell’opinione pubblica.
È la violenza della polizia e quindi del Governo che ne è il mandante a determinare e legittimare la violenza dei Gilet. Infatti, nessuna forza politica alternativa alla formazione di Macron ha condannato pubblicamente le azioni dei Gilet, anche in occasione del III°, IV° e V° Atto, durante i quali si è respirata un’aria insurrezionale nonostante i 175 mila agenti schierati in tutta la Francia, con i cittadini delle banlieue unitisi ai manifestanti, barricate alte 4 metri, incendi, saccheggi e scontri fino a notte fonda. La gestione sconsiderata dell’ordine pubblico, fatta attraverso i corpi d’assalto nati durante la guerra di Algeria e i gruppi speciali antiterrorismo, quelli che nelle immagini indossano abiti casual di colore nero, con uno zainetto nel quale conservano le armi fra cui il flashball e una fascia rossa sul braccio destro, è percepita come una profonda ingiustizia che non può essere tollerata, una repressione nei confronti della propria libertà e sicurezza. Questo scatto di orgoglio e dignità ha aperto un processo di consapevolezza, coraggio e acquisizione di coscienza di ampia portata. È anche per questo che possiamo dire che nella società francese è in atto un profondo cambiamento politico e culturale. Non sappiamo quale sarà il suo esito immediato. Se i Gilet saranno strumentalizzati, se diventeranno forza politica, se saranno repressi ancor più duramente, se favoriranno l’affermazione di altre forze politiche più moderate o più radicali. Quel che è certo è che bisognerà continuare ad osservarne con molta attenzione gli sviluppi futuri e continuare a stare nelle contraddizioni del movimento. La partita è ancora aperta, la situazione è in continua evoluzione. Torniamo stanchi, provati per quello che abbiamo visto, ma meno confusi.
Marco Bucci
312/1/2019 www.dinamopress.it
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