Torino-Lione: fantasia senza confini
Una caratteristica che accomuna molte delle espressioni a favore del tunnel transfrontaliero sull’asse Torino-Lione è quella di avere una natura spiccatamente ideologica: affermazioni, in luogo di argomentazioni; aggettivi e sostantivi astratti; richiamo di vaghi e indefiniti spauracchi come la “decrescita felice” allo scopo di suscitare inquietudine nell’interlocutore, e altro ancora.
Dopo aver individuato nella crisi mondiale in corso una transizione epocale, anziché interrogarsi sui mutamenti strutturali necessari, si ripropongono antiche ricette del business as usual, basate su opere pubbliche, non importa quali, la cui essenza antica è fatta di cemento e movimento terra a carico della collettività. La comunità scientifica del settore ha da tempo indicato in modo argomentato e fattuale l’insostenibilità fisica dell’economia che qui si vorrebbe far ripartire con ricette arcaiche, a dispetto di un noncurante e abbondante uso di termini quali cultura, conoscenza, infrastrutture, 4.0 e simili. Secondo la medesima comunità scientifica e istituzioni internazionali quali le Nazioni Unite, se si vuole sperare di mitigare (ormai non è più possibile evitare del tutto) l’impatto dei mutamenti climatici in essere occorre che almeno l’80 per cento degli idrocarburi fossili contenuti in giacimenti già noti, resti dov’è.
Eppure, in mezzo a una nuvola di “conoscenza”, “digitale”, “futuro” appare il sostegno alle trivellazioni dei fondali (il petrolio terrestre “facile” comincia a scarseggiare) e ai grandi metanodotti.
Se l’interesse dell’umanità vuole che l’80 per cento degli idrocarburi già localizzati resti sotto terra che senso ha cercarne altri da estrarre? Se sostenibile non è una parola usata qua e là per nobilitare il discorso e il futuro sta nelle energie rinnovabili, che senso ha buttare risorse per infrastrutture di trasporto di combustibili fossili anziché nel sostegno e promozione di fonti rinnovabili, oggettivamente in concorrenza con l’economia del petrolio?
Sul versante sociale le statistiche dicono che più o meno dagli anni ’70 le disuguaglianze sociali sono in crescita ovunque e se localmente e per un tempo limitato sembrano diminuire c’è nei dintorni qualche altro luogo in cui la situazione va peggio che nella media. Anche in questo caso il fenomeno non è dovuto al destino cinico e baro, ma è strutturalmente connesso con l’economia del sempre di più in un ambiente finito. Oltre alle formule matematiche lo comprova il gioco del Monopoli. Le disuguaglianze sono alla base di sofferenze, tensioni sociali e conflitti e per venirne a capo bisogna cambiare le regole del gioco prima di rilanciare a tutti i costi una nuova mano con le regole del passato.
Su questo sfondo si colloca il tunnel sotto le Alpi occidentali trasformato in feticcio del come prima più di prima. Nella realtà si tratta di un’opera che insisterebbe su una parte di arco alpino attraverso cui passa un considerevole flusso di merci (tra un quarto e un quinto di quanto attraversa l’intera catena) ma con un andamento tendenziale in calo o tutt’al più stazionario e senza prospettive di crescita rilevante. Il traffico viceversa tende regolarmente a crescere, anche se con un rallentamento in atto, lungo le direttrici transalpine da nord a sud. La ragione di questi andamenti non è difficile da capire: la direttrice est-ovest connette mercati materialmente saturi (l’evoluzione nel tempo è rappresentata da una logistica e qui ci si trova nella parte alta della curva in prossimità dell’asintoto) e tra cui il flusso è concretamente elevato e può oscillare su e giù, ma senza possibilità rilevanti di crescita a medio-lungo termine; gli assi nord-sud invece sono connessi coi porti del Mediterraneo i quali a loro volta collegano l’Europa con l’estremo oriente e là i mercati sono lontani dalla saturazione materiale (si trovano nella parte bassa della logistica) e il costo della mano d’opera è molto minore.
Invece di queste prosaiche considerazioni molti sostenitori del tunnel preferiscono dedicarsi alle “scommesse” (con denaro altrui) restando nel campo delle suggestioni accattivanti come nel caso della “via della seta”. Provando a vedere di cosa si tratti troviamo che la suddetta “via della seta” ha come minimo due rami: uno terrestre e uno marittimo. Quello terrestre fisicamente c’è già e consiste in tratte ferroviarie esistenti che tendono, per quanto possibile, a restare in pianura e ad andare diritto: il terminale europeo della “via” è a Duisburg in Germania (con prosecuzione per Rotterdam sul Mare del Nord): un’occhiata a una cartina ci dice facilmente che da lì le merci destinate all’Italia seguiranno una direzione nord-sud e certamente non passeranno per Lione. Per quanto riguarda il ramo marittimo, i cinesi hanno cominciato a mettere gli occhi sui porti di Venezia e Trieste come terminali: di nuovo, per andare nel cuore dell’Europa partendo da Venezia o Trieste (e ovviamente anche da Genova) si va verso nord, non verso ovest, e le merci destinate alla Francia o alla penisola iberica proseguirebbero via mare (costa decisamente meno) verso i porti di Marsiglia, Tolone, Barcellona, Valencia.
Naturalmente mantenendosi fuori dalla dimensione razionale si può dire qualsiasi cosa.
Per sollevare il morale un pizzico di humour non guasta e qui arriva lo “hub continentale” che sarebbe rappresentato dalla “nuova stazione di Susa”. Susa è una gradevole cittadina con importanti resti romani, ma ci vuole una discreta fantasia per immaginare stuoli di turisti che la scelgono come punto di arrivo del loro viaggio magari per poi fare da lì delle gite a Torino o alla reggia di Venaria, piuttosto che raggiungere direttamente Torino (55 km più in là) per poi da Torino fare una gita di un giorno ad ammirare l’arco di Augusto, porta Savoia, l’acquedotto romano e quant’altro. Eppure c’è stato persino chi ha immaginato frotte di sciatori internazionali che scenderebbero alla stazione internazionale di Susa per poi da lì, in autobus o con un treno locale, risalire verso i campi da sci, laddove oggi ci sono dei TGV (Train Grand Vitesse) che già fermano direttamente a Bardonecchia e a Oulx. Temo che considerazioni come questa le facciano molto meglio operatori turistici e gestori di servizi di trasporto che verosimilmente farebbero fare alla stazione internazionale di Susa la fine della stazione AV di Afragola.
Colpisce come nel mondo imprenditoriale, al di là dei toni aulici, si adottino criteri drasticamente diversi a seconda che si tratti di spendere risorse proprie, gestite in modo oculato e conservativo, oppure denaro pubblico, cioè di tutti. Sembrerebbe che, facendo parte del segmento sociale minoritario che controlla la maggior parte della ricchezza del Paese, si cercasse di esorcizzare l’oscuro e incombente pericolo che una crisi economica, generata più dai fatti materiali che dagli esseri umani, possa, in concreto, mettere in discussione la propria condizione di vantaggio e i meccanismi che la tutelano e garantiscono.
Angelo Tartaglia
3/2/2019 https://volerelaluna.it
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