Nella foto il Presidente Pertini con il Presidente Tito
Bene, io ricordo:
il campo di concentramento di Gonars (UD)che è stato un campo di concentramento realizzato dal regime fascista nell’autunno del 1941 e utilizzato per internare i civili rastrellati nei territori occupati dall’esercito italiano nell’allora Jugoslavia. Le due massime autorità civili e militari della Provincia di Lubiana, l’Alto Commissario Emilio Grazioli e il generale Mario Robotti, comandante dell’XI Corpo d’armata, attuarono le misure repressive: così ci furono fucilazioni di ostaggi, incendi di villaggi e deportazioni di popolazioni intere. Nella notte tra il 22 e il 23 febbraio del 1942 la città di Lubiana fu circondata interamente da filo spinato, tutti i maschi adulti furono arrestati, sottoposti a controlli e la gran parte di essi destinati all’internamento. In breve anche le altre città della “provincia” subirono la stessa sorte.
Gli arrestati furono portati nel campo di concentramento di Gonars, dove nell’estate del 1942 erano presenti già più di 6000 internati, ben oltre le possibilità ricettive del campo, che era allestito per meno di 3000 persone. A causa del sovraffollamento, delle precarie condizioni igieniche e della cattiva alimentazione, ben presto si diffusero varie malattie, come la dissenteria, che cominciarono a mietere le prime vittime. In questo primo periodo nel campo si trovarono concentrati intellettuali, insegnanti, studenti, operai e artigiani; quindi tutti coloro che erano considerati potenziali oppositori e tra essi c’erano anche molti artisti che alla detenzione nel campo hanno dedicato molte delle loro opere. Sotto pseudonimo erano internati anche esponenti del Fronte di Liberazione sloveno, che sarebbero poi diventati dirigenti della Resistenza jugoslava. Alcuni di essi nell’agosto del 1942 organizzarono una fuga dal campo, scavando una lunga galleria sotto la baracca XXII. Dopo la fuga, la gran parte degli internati fu trasferita in altri campi che nel frattempo erano stati istituti in Italia, in particolare a Monigo, a Chiesanuova e aRenicci nonché a Visco, in provincia di Udine, a pochi chilometri da Gonars (A Visco, in base alle testimonianze storiche risulta che vi furono rinchiuse tra le 3 e 4 mila persone, rastrellate anche a colpi di lanciafiamme, furono rinchiusi anche 120 bambini e molte donne. La sua attività disumana ha avuto luogo tra il 1941 e il 1943, imprigionando in prevalenza sloveni e croati. La superficie dell’area, che comprende anche l’ex caserma Borgo Piave, è enorme, è di circa 130 mila metri quadrati). Il campo di Gonars si riempì ben presto di un nuovo tipo di internati: uomini, donne, vecchi e bambini rastrellati dai paesi del Gorski Kotar, la regione montuosa a nord-est di Fiume, e prima deportati a Kampor, nell’isola di Rab. Qui nel luglio del 1942 il generale Mario Roatta aveva predisposto l’istituzione di un immenso campo di concentramento, destinato ad essere una delle tappe della “bonifica etnica” programmata dal regime nei territori jugoslavi occupati. Nell’estate del 1942 furono internati ad Arbe oltre 10.000 sloveni e croati, in condizioni di vita spaventose, in tende logore, senza servizi igienici né cucine. Infatti i campi di concentramento per jugoslavi erano organizzati dai comandanti dell’esercito italiano secondo il principio espresso dal generale Gambara: “Campo di concentramento non è campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. Ben presto la mortalità ad Arbe raggiunse livelli altissimi e il generale Roatta decise di trasferire donne, vecchi e bambini a Gonars, dove, nell’autunno-inverno 1942-43, arrivarono migliaia di persone in condizioni di debilitazione estrema. Così, nonostante l’impegno umano di alcuni degli ufficiali e soldati del contingente di guardia, come il medico Mario Cordaro, nel campo di Gonars oltre 500 persone morirono di fame e di malattie. Almeno 70 erano bambini di meno di un anno, nati e morti in campo di concentramento. Dopo l’otto settembre del 1943 il campo venne occupato dalle truppe tedesche che costruirono in fretta e furia (grazie alla TOD e ai prigionieri) un raccordo ferroviario che dalla località Friulana Gas (Ferrovia Udine-Venezia) raggiunse il lager con ben tre ponti provvisori militari sul fiume Cormor. Il campo fu demolito e chiuso con la liberazione da parte degli Alleati. Adesso se volete cominciamo anche a parlare di foibe.
Ad integrazione della presente mi pregio condividere le laiche riflessioni di un compagno, Stefano Raspa: «Sono un detrattore di Tito, dell’esperienza jugoslava come capitalismo di stato anche se non allineato all’URSS. Mi fan ribrezzo la repressione, le torture e l’uccisione dei comunisti e socialisti oppositori al regime titino finiti a Goli Otok e altri lager, anche se molti di questi erano filostalinisti, la logica del taglione “loro a noi, noi a loro” in un campo che si sosteneva, falsamente, rivoluzionario era e resta inaccettabile. Ricordo le centinaia di operai e le loro famiglie monfalconesi, convinti comunisti soprattutto dei cantieri navali, emigrati nella jugoslavia socialista terra di speranze e finiti massacrati come controrivoluzionari.
Tuttavia oggi è un giorno del ricordo monco, di un ricordo infimo, persino squallido.
la storia è storia e va raccontata, tutta fino in fondo.
Va raccontata la storia di un occupazione militare, di un’aggressione infame senza neppure una dichiarazione di guerra, quella dell’Italia al regno jugoslavo. Ricordo l’accerchiamento di Lubiana, i km di filo spinato con cui hanno trasformato una città viva e europea in un lager a cielo aperto.
I rastrellamenti, le carcerazioni, le uccisioni.
Ricordo le deportazioni a centinaia e poi migliaia, i campi di concentramento a decine sia in Jugoslavia sia in Italia dove morirono decine di migliaia di civili sloveni e croati, moltissimi bambini, di fame e di stenti.
Ricordo i partigiani farsi sempre più coraggiosi e poi più numerosi, ricordo incursioni e azioni straordinarie, atti estremi per liberare le proprie terre dal nazifascismo.
Ricordo la capitolazione dell’Italia fascista, lo sbandamento dell’esercito italiano che per anni incendiava i villaggi slavi mentre i militari si facevano fotografare sorridenti, le decapitazioni di partigiani, gli stupri di donne.
Ricordo il prevalere dei partigiani e poi dell’esercito jugoslavo, l’uccisione dei fascisti, dei collaborazionisti e le vendette personali, come in ogni guerra, sempre.
Ricordo le poche foibe utilizzate da nazisti, fascisti e poi comunisti.
Ricordo i processi e le fucilazioni con il beneplacito degli alleati.
ricordo che nessun criminale italiano è mai stato consegnato alla Jugoslavia. Ricordo la spartizione dei bottini di guerra: i confini, roba da Stati, quelli che le guerre le vogliono e poi le fanno fare ai disgraziati.
Ricordo che non ci fu alcun sterminio di italiani in quanto italiani da parte dei barbari slavo-comunisti, ma una guerra e le sue conseguenze tragiche dove i prepotenti di prima poi, da perdenti, pagano un prezzo come aggressori, occupanti e assassini.
Un prezzo pagato sicuramente anche da chi non avrebbe dovuto, come in ogni sporca guerra.
Ogni morto è un morto di troppo. Ma ogni morto ha un nome e una storia, e le storie non sono mai uguali e non hanno lo stesso peso o si racconta tutta la storia, fino in fondo, senza reticenze e senza propaganda o quella che si racconta è solo un altro caricatore pronto per essere innestato nel mitragliatore della prossima guerra.»
E adesso, se volete, parliamo di foibe!
Marilena Pallareti
Insegnante a Forlì
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
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