Il “modello americano” funziona?
Il modello americano funziona! I titoli di oggi non lasciano scampo al lettore che mastica poco di economia, e Renzi – o chi gli gestisce il tweet – ne approfitta subito per dire che è così che bisogna fare.
Stanno davvero così le cose? Il numero sparato ieri dall’ufficio statistico sembra granitico: +5% di crescita tendenziale del Pil nel terzo trimestre. Una crescita che avvicinerebbe gli Usa alla Cina (+7) allontanandola in modo siderale dall’Europa incatenata dall’austerità e dal pareggio di bilancio.
Sorvoliamo sulla storica inattendibilità delle statistiche statunitensi, capaci di darci “revisioni” sorprendenti (al rialzo o al ribasso) nel giro di pochi giorni, anche grazie a criteri differenti da qualli standard in altri paesi. Per esempio: un individuo è classificato tra gli occupati se ha lavorato almeno un’ora nell’ultima settimana censita. Un modo di contare che facilita molto il mantenimento del tasso ufficiale di disoccupazione al di sotto dei livelli di guardia, anche se la povertà reale si diffonde invece come uno tsunami. Persino degli ammiratori senza riserve del “modello Usa”, come Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, avvertono che “Anche questi numeri vanno presi con cautela: dentro ci sono molti lavori precari o part time. La flessibilità degli impieghi rende più dinamico il sistema produttivo, ma ha anche i suoi costi sociali. Se il presidente americano fatica a convincere il suo popolo (che lo ha sonoramente punito alle recenti elezioni di mid term ) di aver fatto un buon lavoro … non sorprende che molti anche da noi storcano il naso davanti alla «ricetta americana»”.
In ogni caso, quel +5% sembra una luce nel buio della crisi. Specie se confrontato con i trimestri precedenti. L’anno era cominciato malissimo, con la riduzione del 2,1% del prodotto interno lordo (Pil). E molti “americani nel cervello” si erano affrettati ad attribuire il dato negativo all’inverno particolarmente pesante. Ma già il secondo trimestre regalava un maestoso più 4,6%. Da gennaio a settembre, aggiustando i calcoli tenendo conto dell’inflazione, il Pil cresce del 2,7%. Nell’intero 2013, il progresso aveva raggiunto il 3,1%. Brindare sembra d’obbligo. E innalzare canti al “modello americano” anche.
È quello che fa Gaggi, sul Corriere, senza star lì troppo a spiegare quale sia il vero “segreto” della ripresa statunitense.
Proviamo noi a farlo. A prima vista le ragioni sono sostanzialmente due: la banca centrale, la Federal Reserve, ha “stimolato” l’economia Usa pompando liquidità per diversi anni consecutivi e il governo Obama ha fatto altrettanto, lasciando volare il debito pubblico a livelli che la Merkel avrebbe chiesto l’invasione con i tank (oltre il 100% rispetto al Pil), e addirittura al 12% il rapporto deficit/Pil (quello che secondo il trattato di Maastricht deve qui stare obbligatoriamente sotto il 3).
Oceani di soldi pubblici, insomma, che in gran parte sono finiti nei circuiti finanziari, ma in misura minore hanno anche raggiunto le imprese dell’economia reale. Soldi pubblici spesi in percentuale non minima anche per rafforzare il già straripante armamento statunitense (+4,4% la spesa militare, sull’onda della crisi con la Russia e del ritorno in Iraq per contenere l’Isis).
Non basta. In questa orgia di soldi pubblici erogati senza limiti si sono trovati anche investitori disposti a puntare sul rischio: le società nate per estrarre shale oil con la tecnica del fracking. Costosissima, sia in termini economici che ambientali, ma capace per qualche tempo di restituire agli Stati Uniti l’indipendenza energetica.
Bene, ci dicono gli ideologi del “modello americano”, Renzi compreso: facciamo altrettanto e siamo a posto. Naturalmente bloccando i salari, licenziando dipendenti pubblici e privati, erodendo il tfr ed eliminando il welfare (sanità, pensioni, istruzione).
Socialismo per ricchi, lo definiva qualche anno fa Joseph Stiglitz, ma se fa crescere l’economia… perché no?
Perché il segreto vero – quello di cui si preferisce glissare sempre – è che questa possibilità ce l’hanno solo gli Stati Uniti. Soltanto loro infatti, stampano una moneta nazionale che si è imposta come unità di misura dei prezzi, mezzo di pagamento e tesaurizzazione globale. Cosa vuol dire? Che solo gli Stati Uniti possono permettersi di pagare creditori e fornitori di beni/servizi/materie prime con pezzi di carta stampata (l’equivalente delle perline con cui i conquistadores si facevano consegnare oro, quando facevano i buoni e portavano in porto uno scambio anziché una rapina). Per tutti gli altri paesi, Unione Europea compresa, la moneta ha una vita sostanzialmente “interna”, e solo modeste quantità vengono detenute nelle riserve strategiche di altre banche mondiali (utilizzate all’occorrenza per far salire o scendere il valore di cambio della propria moneta).
È così dall’agosto del 1971, quando “Dick il bugiardo”, al secolo Richard Nixon, abolì in una notte la parità fissa tra dollaro e oro (un dollaro=un grammo), rendendo il dollaro “libero” di essere moltiplicato nella quantità senza perdere nulla in valore. Da allora è stato proprio il dollaro – le sue oscillazioni, la sua pervasività globale – a permettere agli americani di “scaricare” sul resto del mondo le proprie crisi; a partire naturalmente da quelle finanziarie.
Il “modello americano”, insomma, funziona solo per gli americani. Non è riproducibile. Non si può imitare. Si fonda su una truffa (il dollaro). Che però non è un bluff. Se non accetti pagamenti in dollari, infatti, viene mandato avanti lo “spezzadita” chiamato Pentagono. È tutta qui la “credibilità internazionale” del dollaro…
Per una indimenticabile esibizione di ideologia capitalistica, vi riproniamo qui per intero l’articolo odierno di Gaggi. Se non si fosse dimenticato del dollaro – non proprio un dettaglio – sarebbe persino “persuasivo”…
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Un modello che funziona. Le ragioni di una rivincita
Un messaggio di speranza e un’occasione di riflessione per chi continua a pensare che l’economia di mercato abbia un fondo patologico. E tende a bollare come «soluzione all’americana» ogni cosa che funziona ma segue un modello basato sull’efficienza e la capacità di produrre ricchezza. La notizia che l’economia Usa è cresciuta al ritmo del 5 per cento nelterzo trimestre del 2014 è anche questo. Molti di quelli che oggi esaltano la straordinariacapacità di ripresa degli Stati Uniti che tornano a essere locomotiva del mondo mentre l’Europa ristagna (o è in recessione) e l’Asia rallentainsieme al Brasile, nove mesi fa intonavanoil de profundis per l’America davanti ai dati di un primo trimestre in recessione.
Una cartolina d’auguri per le nostre economie malate e un’occasione di riflessione per chi, sotto sotto, continua a pensare che l’economia di mercato abbia un fondo patologico. E tende a bollare come «soluzione all’americana» ogni cosa che funziona ma segue un modello basato sull’efficienza e la capacità di produrre ricchezza.
La notizia che l’economia Usa è cresciuta al ritmo del 5 per cento nel terzo trimestre del 2014, è anche questo. Certo, è facile – e anche rischioso – fare del trionfalismo davanti a un semplice numero, per quanto spettacolare esso sia. Molti di quelli che oggi esaltano la straordinaria capacità di ripresa degli Stati Uniti che tornano a essere locomotiva del mondo mentre l’Europa ristagna (o è in recessione) e l’Asia rallenta insieme al Brasile, nove mesi fa intonavano il de profundis per l’America davanti ai dati di un primo trimestre in recessione. Solo effetto di un inverno straordinariamente freddo che per molti giorni ha tenuto quasi tutto il Paese a 15 sotto zero con nevicate a ripetizione e aeroporti a lungo bloccati, scrivemmo allora.
Ma lo scetticismo nei confronti dell’America restava, anche se era evidente che con bufere di neve a ripetizione (sedici nevicate in un solo inverno a New York) i consumi non potevano che rallentare. La tentazione del titolo eclatante che allora spingeva a parlare di America «in panne» oggi può portare a dipingere l’America come a un Paese che ha risolto i suoi problemi economici e, quindi, da imitare a pancia bassa. Non è così. La forte ripresa economica dipende, in parte, anche da un effetto-elastico: l’economia sta recuperando il terreno perduto nel gelo invernale: chi è rimasto a casa anziché andare dal concessionario a scegliere la sua nuova auto a febbraio, l’ha fatto a maggio o a luglio.
E, comunque, il più 5 per cento del terzo trimestre è un dato che non vedremo ripetersi a fine anno: a novembre, ad esempio, le vendite di beni durevoli (dai computer ai frigoriferi, tutto ciò che dura più di tre anni) sono addirittura calate. Mentre il forte aumento della spesa pubblica (+4,4 per cento), dovuto soprattutto a un’improvvisa impennata di quelle militari, è un dato che non dovrebbe ripetersi nei prossimi trimestri.
Insomma, la performance record di questo trimestre – la crescita più forte da 11 anni a questa parte – non si ripeterà con la stessa intensità nei prossimi trimestri. Ma il dato di fondo è che, a dispetto di una congiuntura internazionale negativa che agisce da freno, l’economia Usa è l’unica a tenere e a dimostrarsi dinamica. Non è solo il Pil del trimestre estivo: dietro c’è un’economia che cresce senza soste da più di cinque anni e che, come Barack Obama non si stanca di ripetere, ha creato posti di lavoro aggiuntivi per 57 mesi consecutivi con la disoccupazione che è ormai scesa dall’8 al 5,8 per cento. Col deficit pubblico che, intanto, è stato dimezzato.
Certo, anche questi numeri vanno presi con cautela: dentro ci sono molti lavori precari o part time. La flessibilità degli impieghi rende più dinamico il sistema produttivo, ma ha anche i suoi costi sociali. Se il presidente americano fatica a convincere il suo popolo (che lo ha sonoramente punito alle recenti elezioni di mid term ) di aver fatto un buon lavoro nonostante la sua pagella economica sia da dieci e lode se confrontata con quelle di Hollande, Renzi e, a ben vedere, anche Angela Merkel, non sorprende che molti anche da noi storcano il naso davanti alla «ricetta americana».
Gli Stati Uniti non sono di certo un modello da imitare in tutto e per tutto: godono di vantaggi economici, particolarmente in campo energetico (i nuovi giacimenti di shale gas), che l’Europa non può replicare. E hanno commesso errori che noi abbiamo evitato, come nel caso della rinuncia a investire in infrastrutture ferroviarie: col risultato che oggi, viaggiando da New York a Washington su pendolini traballanti, gli americani invidiano i TGV francesi e anche i nostri Frecciarossa (altro che No Tav).
Come la democrazia, anche il capitalismo ha mille difetti. Ma chi ha di meglio da proporre nel mondo d’oggi? Anziché continuare a scartare con sufficienza le «soluzioni all’americana» solo per sprofondare ancora di più nel nostro immobilismo, forse sarebbe ora di cercare una nostra via alla dinamismo economico e a una flessibilità totale: sapendo che flessibile non deve essere solo illavoro, ma anche il resto, dall’organizzazione dello Stato alla mentalità degli imprenditori. Come nel caso della trasmissione del calo delle quotazioni del petrolio ai prezzi della benzina alla pompa: gli americani, che l’anno scorso hanno speso 370 miliardi di dollari per il carburante, quest’anno hanno già risparmiato ben 80 miliardi: reddito in più da spendere per le famiglie. E col prezzo medio della benzina ormai sceso a poco più di 60 centesimi di dollaro al litro, presto i risparmi supereranno quota 100 miliardi: una poderosa manovra a sostegno di economia e consumi. E inItalia?
Claudio Conti
24/12/2014 www.contropiano.org
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