5 MARZO 1943 – Sciopero antifascista alla FIAT Mirafiori.
Torino h 10: inizia nell’officina 19 lo sciopero degli operai della Fiat Mirafiori per chiedere il riconoscimento a tutti delle 192 di salario a tutti gli operai sfollati dalle città in conseguenza dei bombardamenti. Mirafiori si ferma completamente il 12 – insieme a tutte le altre industrie torinesi – stavolta non alle 10 del mattino, ma dopo la pausa della mensa: gli operai non rientrano nelle officine e il salone che «sfama» i 15.000 addetti della più grande fabbrica italiana diventa il teatro di decine di comizi. Di lì il movimento crescerà e si allargherà a tutto il nord, soprattutto a Milano, alla Falk, alla Breda, alla Marelli.
Il 5 marzo 1943 la sirena della fabbrica, che suonava regolarmente ogni mattina alle dieci, rimase silenziosa: il segnale che doveva far partire il primo sciopero dopo diciotto anni di niente era stato disinnescato dalla direzione. Qualcuno aveva avvertito la Fiat. All’officina 19 di Mirafiori, Leo Lanfranco – manutentore specializzato, reduce dal confino e assunto nonostante il suo curriculum di comunista perché «sapeva dominare il ferro» – decise di muoversi lo stesso, lasciò la macchina, fece un gesto con le mani e tutta l’officina si fermò. Il piccolo corteo si mosse in direzione delle presse raccogliendo qua e là l’adesione di altri operai. Non era un blocco massiccio, ma era la prima volta. Da quel giorno le fabbriche di Torino cominciarono a fermarsi, con un crescendo che fece impazzire questura e partito fascista, fino al blocco totale del 12 marzo e all’estensione dello sciopero a Milano, all’Emilia, al Veneto. Un marzo di fuoco. Appena dopo Stalingrado, prima del 25 luglio, molto prima dell’8 settembre, sono gli scioperi del marzo `43 a segnare l’inizio della fine del ventennio fascista. Scioperi contro la guerra, contro la fame, contro il regime; quando la borghesia italiana è ancora muta, i partiti antifascisti solo l’ombra di quel che erano e ridotti alla dimensione di gruppetti clandestini, gli intellettuali combattuti tra fedeltà alla patria e disaffezione per l’uomo del destino; quando le fabbriche sono militarizzate e scioperare può costare il tribunale speciale, l’accusa di tradimento, la galera, e, poi, la deportazione, la prospettiva del lager. Il 5 marzo del `43 è la data del «risveglio operaio», il riannodarsi del filo rosso spezzato nel `22 e reciso – sembrava definitivamente – con la guerra di Spagna. Il vero inizio della Resistenza.
«Non sapevo che stavo facendo uno sciopero, per me era una protesta, la parola sciopero mi era sconosciuta» – ricorderà molto più tardi un allora giovane operaio appena uscito dalla «scuola allievi Fiat» – «ho scoperto in quei giorni cosa volesse dire quella cosa di cui parlavano i vecchi, quel movimento solidale che fa di tanti corpi un’entità sola. E, poi, il senso di libertà: si diceva che in fabbrica c’erano dei comunisti, dei socialisti, ma nessuno sapeva chi fossero… erano qualcosa di mitologico. In quei giorni sono emersi dalle tenebre, si sono scoperti e in quella lotta si riconoscevano l’un l’altro». Parole che spiegano bene il duplice senso degli scioperi del marzo `43: l’emergere dal buio del conflitto sociale, il suo estendersi nel riconoscersi in una condizione comune da combattere e cambiare, la sua valenza politica. Si può dire che anche la Cgil rinasce in quell’occasione, che in quel movimento si fondano le basi per un sindacato generale, l’opposto della natura corporativa dei sindacati fasciti, che i comunisti della clandestinità tentarono vanamente di infiltrare durante gli anni `30 per ricollegarsi alle masse operaie. Un ricongiungimento che avviene solo nel pieno del conflitto, su una base rivendicativa materiale che assume caratteristiche generali. La cosa che non sfugge al regime. La repressione è immediata: non riesce nei giorni degli scioperi – che si concludono con conquiste salariali e la mediazione di Valletta corso a Roma per convincere il regime a dare agli operai almeno una parte di ciò che chiedono – nonostante le spedizioni punitive davanti alle fabbriche; ma nelle settimane seguenti oltre duemila lavoratori vengono fermati, molti di loro arrestati e spediti davanti al tribunale speciale. Ma il movimento non si ferma, rallenta la sua corsa per riprenderla qualche mese dopo e dal marzo ’43 le fabbriche italiane diventano un problema in più per Mussolini, che investe di vane sfuriate i suoi gerarchi. E vana sarà anche la «socializzazione» proposta da Salò per riconquistare il consenso operaio con un’operazione tipicamente corporativa (la comunità produttiva della fabbrica tra azienda, sindacati fascisti e lavoratori contro la borghesia parassitaria) che annuncia persino presunti vincoli alla proprietà: l’ostilità operaia al fascismo diventerà sempre più radicale e attiva. Da quel momento, per decenni, le fabbriche saranno altra cosa dal potere economico e politico.
In quegli scioperi per la pace, il pane e la libertà risiede ancor oggi una parte importante della costituzione materiale della repubblica: non furono un episodio torinese o milanese, né solo una tappa della storia del Partito comunista italiano; furono l’esplicitarsi della natura democratica del conflitto operaio, dell’ostilità del lavoro alle logiche di guerra e dell’irriducibilità sociale del conflitto di classe.
Marilena Pallareti
Docente
Collaboratrice del periodico Lavoro e Salute
5/3/2019
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