Zucksadness, il triste veleno
Quella che segue è una mia (libera) recensione al testo SAD BY DESIGN di Geert Lovink
Quando si è scoperto che Facebook è stata uno strumento privilegiato della vittoria di Donald Trump alle elezioni del 2016, quando si è scoperto che le reti sociali sono strumento per la diffusione di paranoia, di teorie complottarde, di notizie false, di aggressioni verbali e di minacce reali, la stampa e le istituzioni politiche hanno cominciato a predicare la riforma di Facebook. È iniziata a quel punto una sorta di processo a Zuckerberg e alla sua creatura.
Zuckerberg si è comportato con grande fair play, è andato in giro per il mondo a parlare con i rappresentanti dei parlamenti europei e americani, ha ripetuto mille volte che lui vuole il bene dell’umanità, la libertà e la democrazia, ma ha anche fatto capire che il business è business e il suo business consiste nel vendere i suoi utenti e i dati che i suoi utenti gli forniscono agli inserzionisti pubblicitari.
Facebook è questo, non altro: uno specchietto per le allodole che credono nella democrazia, e uno strumento di raccolta di dati per le grandi aziende che credono, più realisticamente, nel profitto. Uno specchietto estremamente raffinato, un salto nella storia dell’evoluzione umana, ma per le allodole che siamo uno specchio che cambia chi lo mira.
Nell’ultimo anno ho seguito giorno dopo giorno la polemica relativa a Facebook, soprattutto dopo l’esplosione dello scandalo Cambridge Analytica: il bravo Zuckerberg convocato dal Congresso per discolparsi del ruolo che Facebook ha svolto per far vincere alla destra le elezioni e per rendere possibili infiltrazioni russe.
Il bravo Zuckerberg è comparso davanti al Congresso americano, al Parlamento europeo e a quello britannico. È stato cortese, articolato, e ha ribadito la sua fedeltà ai principi della democrazia liberale e della buona creanza. Ma Facebook è immutata e non muterà perché solo gli stupidi (o i politici) possono pensare che Facebook sia una cosa diversa da quella che è stata fino adesso. Il business di Zuckerberg consiste dichiaratamente fin dal principio nel vendere ad aziende pubblicitarie o di altro genere informazioni sui suoi utenti. Cos’altro è se non questo?
Quando si rimprovera alla rete di veicolare flussi di odio, di menzogna, di violenza, si dimentica che il responsabile di quella massa di contenuti bestiali non è il medium che li veicola, ma gli individui che comunicano tra loro nell’unica maniera che conoscono. I social media sono lo specchio più autentico della mente collettiva, anche se si tratta di uno specchio che fin dall’inizio ha impresso le sue fattezze sul volto dell’umanità che si rispecchia. Il medium ha prodotto una mutazione nelle modalità di elaborazione cognitiva della mente sociale: l’intensificazione dello stimolo e l’accelerazione del flusso hanno reso la mente incapace di distinzioni razionali e insensibile alla vibrazione della pelle dell’altro.
Zuckerberg non può farci niente. Regolare la rete in maniera restrittiva è un compito quasi impossibile, ma anche se si riuscisse a normare i flussi di comunicazione secondo regole stabilite dai garanti della buona creanza, anche se si potesse imporre una censura benpensante, le modalità di funzionamento cognitivo della mente sociale non ne sarebbero cambiate, anche se decine di migliaia di cleaners in Cina o nelle Filippine lavorano ininterrottamente per ripulire la rete di ciò che offende il pudore e la decenza.
L’illusione di normare Facebook (o Google, o Amazon, Microsoft, Apple) dipende da una percezione distorta e anacronistica del campo globale. È l’illusione che uno stato nazionale (foss’anche il potentissimo stato americano o la potentissima Unione europea) abbia i mezzi conoscitivi, tecnici e repressivi per governare il FAGMA. Nessuna entità politica possedé questi mezzi. Come ha scritto Kevin Kelly nel suo libro del 1994 Out of Control, la Mente Globale non può essere oggetto di conoscenza e meno che mai di controllo da parte delle menti sub-globali. E gli stati nazionali come qualsiasi entità politica e istituzionale non sono che menti sub-globali.
Il fatto è che Google non appartiene al territorio degli Stati Uniti. Sono gli Stati Uniti che appartengono al territorio di Google.
In un libro intitolato Zucked, Roger McNamee, che è stato uno dei collaboratori di Zuckerberg nella prima fase della storia della rete sociale per antonomasia, racconta come lui, il bravo Roger (evangelico e tecnofilo) ha tentato di avvertire il suo amico Zuckerberg dei pericoli che la rete stava correndo, per effetto della infiltrazione di agenti politici malintenzionati, e racconta come lui ha cercato di emendare le colpe di Facebook, senza purtroppo riuscirci poverino.
Scrive l’evangelico McNamee:
A quel tempo Facebook aveva un miliardo e settecento milioni utenti attivi. Il successo dipendeva dalla fiducia degli utenti. Se questi decidevano di considerare la compagnia responsabile di un danno causato da parti terze, non sarebbe rimasto alcun porto sicuro per proteggerla da un danno di immagine. La compagnia stava rischiando tutto. Suggerii che Facebook aveva però una possibilità. SI poteva seguire l’esempio di Johnson e Johnson, quando qualcuno mise del veleno in qualche bottiglia di Tylenol sugli scaffali di un magazzino a Chicago nel 1982. In quel caso la compagnia ritirò tutte le bottiglie di Tylenol che si trovavano nei magazzini del paese e non riprese la distribuzione del prodotto prima di aver rifatto tutte le confezioni. In questo modo ci fu una perdita finanziaria di breve periodo ma questo fu compensato da un grande aumento della fiducia dei consumatori. J&J non aveva messo il veleno nelle sue bottiglie. Avrebbe potuto scegliere di ignorare il problema causato da un folle assassino. Invece si prese la responsabilità di proteggere i suoi consumatori e fece la scelta più saggia. Pensai che Facebook poteva trasformare un potenziale disastro in una vittoria facendo la stessa cosa.
Il paragone fatto dal buon Roger non funziona per niente. È vero che nel 1982 un pazzo aveva iniettato della cianide di potassio (se mi ricordo bene la denominazione chimica del veleno) nelle bottiglie di Tylenol che stavano sullo scaffale in un magazzino di Amsterdam Avenue di Manhattan. Me lo ricordo bene perché in quel periodo stavo a Manhattan e mi appassionai al caso: una decina di poveri malcapitati sofferenti di mal di testa ci rimasero secchi.
Ma qui la faccenda è ben diversa. Sugli scaffali di Facebook le bottiglie avvelenate sono un numero esorbitante, e gli avvelenatori non sono altro che gli utenti medesimi, e il veleno è impalpabile, indistinguibile. E per ripetere l’eroica azione della Johnson and Johnson il povero Zuckerberg dovrebbe sospendere il servizio a due miliardi di addicted che passano gran parte del loro tempo a controllare se qualche idiota gli ha mandato del veleno da iniettarsi. Perché tutto il tempo che Facebook (e Instagram, e Whats app) mobilitano è veleno, e il business consiste essenzialmente in questo: distribuzione di veleno per la mente collettiva assuefatta e dipendente, cattura dell’attenzione di un quinto dell’umanità.
Ho aperto il mio account Facebook nel 2009 per una campagna elettorale cittadina che finì in maniera patetica. Poi ho continuato a fare veloci incursioni nel sito di Facebook ogni qual volta mi è capitato di avere qualcosa da comunicare a qualche migliaio di amici: un evento, un libro, un’intuizione improvvisa. Non c’è dubbio sul fatto che il dispositivo FB rappresenti un passo immenso nella storia dell’evoluzione umana. Chi sono io per giudicare Zuckerberg? Ma è anche possibile (io ne sono convinto) che Facebook rappresenti il più formidabile anello della catena lungo la quale si sta costruendo l’automa globale. La catena di costruzione di un automa del quale le menti individuali non sono che terminali dipendenti.
Quando con grande scandalo dei benpensanti della sinistra liberale occidentale si è scoperto che Facebook è stato lo strumento di un’aggressione russa (così pare, ma chi lo sa?) contro la democrazia occidentale (ohibò) molti si sono affrettati a dichiarare il loro sdegno e hanno abbandonato la rete sociale investendo un’enorme quantità del loro tempo perché uscire da Facebook non è più facile che uscire dal labirinto dell’ultima scena di Shining.
Io non c’ho neanche pensato, perché dei danni che Facebook infligge alla democrazia americana non me ne frega niente. E perché so da principio che entrare in Facebook significa cedere la propria libertà (che tanto non serve a niente) all’automa globale.
Non penso affatto che Trump sia la rovina della democrazia americana, ne è piuttosto il compimento, la perfezione, il capolavoro (speriamo) finale.
Continuo tristemente a trascinarmi in Facebook di tanto in tanto, un paio di volte la settimana qualche volta anche più (quando sono proprio molto depresso). La tristezza è il sentimento che prevale ogni qualvolta clicko sulla parola “Accedi”.
Franco Berardi Bifo
1/4/2019 https://comune-info.net
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