La guerra di tutti i giorni. Maternità e lavoro in Italia
Intervista a Elisabetta Ambrosi, autrice del libro Guerriere (Chiarelettere 2014)
di Gina Pavone
Gravidanze pianificate in base ai contratti di lavoro e alla loro scadenza. Il welfare diseguale e spesso irrisorio. I servizi insufficienti, o inesistenti in diverse zone del paese. Nonni sempre più indispensabili, ma al contempo sempre più anziani e bisognosi di cura loro stessi. Le tante battaglie quotidiane di chi, sempre meno, si azzarda a fare figli in Italia. Intervista a Elisabetta Ambrosi, autrice del libro Guerriere (Chiarelettere 2014)
Non è vero che di mamma ce n’è una sola, almeno se si parla delle mamme in lotta: con il mercato del lavoro, con i servizi e l’organizzazione che mancano, con il welfare praticamente inesistente, specie in certe zone del paese. Sono tante le Guerriere, titolo di un volume edito da Chiarelettere, a firma della giornalista Elisabetta Ambrosi. Sono di tanti tipi diversi quanti sono i contratti e le situazioni spiacevoli che l’attuale mercato del lavoro riesce a creare per le mamme, come emerge nelle tante storie riunite nel libro, raccolta di voci e testimonianze, quasi racconto corale di quali e quante campali battaglie comporti, in Italia, lavorare e essere madri. Ne parliamo con l’autrice
– Delle tante storie che hai raccolto, quale ti sembra la più emblematica della guerra tra maternità, lavoro e ‘sabotatori’ vari?
Quella di Maria, cui dopo la gravidanza non hanno rinnovato il contratto e che, pur in cerca di lavoro, si vede rifiutare un posto al nido per il bambino perché disoccupate, casalinghe e in cerca di lavoro sono messe sulle stesso piano dal suo comune di residenza. Come se una che cerca lavoro potesse tenere il bimbo tutto il giorno! E come se il nido non fosse uno strumento formidabile per i bambini, invece di un posto dove tenerli e basta.
– Perché un paragrafo è intitolato “dimmi che contratto hai e ti dirò che gravidanza avrai”?
Perché oggi le donne pianificano i figli in base ai contratti. Perché le lavoratrici dipendenti, che pure hanno problemi enormi di conciliazione di tempi e cura, statisticamente oggi fanno più figli, mentre le lavoratrici autonome ricevono rimborsi ridicoli per i mesi di gravidanza. E ci sono donne che addirittura cercando di pianificare una gravidanza in modo che non coincida con la fine del contratto.
– Come se non bastasse la disparità determinata dai contratti e dalle condizioni lavorative, c’è anche una cospicua differenza territoriale: dimmi in che città vivi…
Questo dato ormai è tanto incontrovertibile quanto assurdo. Il federalismo all’italiana si è tradotto in una giungla di diversità tra regione e regione, città e città, per cui è diversissimo, in termini di qualità della vita, essere madri a Bolzano o a Napoli. Bisognerebbe forse tornare indietro, perché se un diritto è un diritto, dovrebbe essere tale su tutto il territorio nazionale, no?
– Quali nuove strategie di sopravvivenza hai registrato nelle tue indagini?
Le donne, e mamme, italiane sono vitali, creative, resistenti e abbastanza allegre, nonostante la condizione femminile in Italia non sia bella, tra stereotipi che resistono, lavoro frammentato, stipendi impari e servizi assenti. La principale strategia è, ovviamente, ricorrere al welfare familiare, cioè all’aiuto di nonni e suoceri. Non sempre è facile, comunque ci vuole umiltà e molta capacità di comunicazione e di relazione, nelle quali le donne eccellono. Poi c’è anche la capacità di organizzarsi tra madri, ad esempio a scuola, magari alternandosi nel prendere i figli a scuola. Gli esperimenti più nuovi e creativi sono quelli che riguardano il cohousing, famiglie che ristrutturano una casa grande e vivono insieme, o forme di welfare inter-familiare e gruppi di autoaiuto materiale che cominciano a diffondersi sempre di più.
– Si può sopravvivere senza nonni a portata di mano o e una specie di utopia?
Beh, dal mio punto di vista di mamma fortunata, è dura, a meno che non si abbia davvero una grande disponibilità di risorse, perché sempre di più i servizi si comprano sul mercato privato, e costano molto, visto che le deduzioni – ad esempio per asili e baby sitter – sono ridicole. L’alternativa spesso è che la mamma lascia il lavoro o non lavora, per dedicarsi totalmente ai bambini. Ma questo, anche se soggettivamente può portare una relativa serenità, è un impoverimento sociale complessivo.
– Il bebè è un salasso, e nei gracili bilanci di coppie con lavori sempre più precari e mal pagati il figlio non ci sta materialmente. Tant’è che la statistica ha registrato un crollo delle nascite acutizzato dalla crisi. Come si barcamenano invece quelli che il bambino lo fanno nonostante il maggiore rischio di povertà?
Direi che il principale mezzo per difendersi dalla povertà oggi è…non fare figli! La paura di non farcela materialmente spinge tantissimi uomini e donne a restare senza. Anche da questo punto di vista, quando il figlio c’è, le strategie sono molte – vestiti usati, frutta e verdura comprata all’ingrosso, utilizzo condiviso della macchina e tante altre cose ancora – ma il problema non sono solo le difficoltà materiali, ma soprattutto l’orizzonte, la prospettiva, che non è una prospettiva di fiducia e di speranza. Il lessico della crisi, fatto di tagli e tagli, spending review, risorse che mancano, fa peggio di cento euro in più al mese.
– Dunque per fare un figlio oggi ci vuole una buona dose di coraggio, mischiato forse a incoscienza. Si più passare dal diffuso “ma chi me lo fa fare”, al “ce la posso fare”? E come?
Facendo prevalere il sentimento e il desiderio sulla ragione e sull’analisi razionale della situazione. Il problema è sempre questo, trovare un compromesso tra principio del piacere, fare un figlio, e principio di realtà. Molti dicono che per fare un figlio basta volerlo, ma solo in parte è vero. Riconoscere le difficoltà reali aiuta uomini e donne anche a non sentirsi colpevoli e sbagliati. Diciamo che la fase del “ce la posso fare” si sposta sempre più avanti, alla soglia dei quarant’anni quasi, ma alla fine fare figli sempre più tardi produce un boomerang. Basti pensare spesso ai nonni, che sono molto vecchi, e quindi non solo non possono aiutare ma magari hanno loro stessi bisogno di aiuto.
Non è solo una questione di sussidi materiali, di soldi, ma di percezione della vicinanza o lontananza delle istituzioni, anche quelle più vicine. Insomma spesso basterebbero cose come un parco curato sotto casa per aiutare le famiglie. Un altro esempio è il car sharing. Nella mia città, Roma, ce n’era uno del comune, mal funzionante e poco pubblicizzato. Sono arrivate due aziende private che in pochi mesi hanno fatto più per le famiglie, guadagnando, di quanto non abbiano fatto tutti gli assessori alla mobilità. Un po’ grottesco, no?
31/12/2014
http://www.ingenere.it/…/la-guerra-di-tutti-i-giorni-matern…
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