Voglio il tuo sudore
E’ una fotografia azzeccata, quella del volantino del Comune di Cerveteri Marina in cui si cercano volontari per la raccolta differenziata durante il tour dell’estate: il Jova Beach Party. È Jovanotti, travestito da Zio Sam, mentre chiede il nostro aiuto, almeno sedici ore di lavoro, in cambio di un panino, una bibita e un gadget. È l’immagine dell’industria culturale: quella che ogni sera fattura milioni di euro ma non paga i lavoratori, perché ormai chiamati volontari, ragazzi fortunati.
Giorno dopo giorno ci si abitua a non vedere, a non guardare in che modo si produce realmente ciò che abbiamo attorno: che si tratti di barattoli di pomodoro pelato o di mega installazioni su cui si esibiranno le star più o meno del momento. Una rimozione che può avere svariate giustificazioni, ma che prima o poi torna a chiedere il conto, a svegliarci di soprassalto. Così per il prossimo concerto di Lorenzo Jovanotti vengono reclutati volontari per «presidiare i contenitori della raccolta differenziata dislocati sull’area dell’evento e informare le persone su come fare bene la raccolta differenziata». In cambio, niente poco di meno che «accesso all’evento; buono per panino + bibita; maglietta Beach Angels + cappellino; – e dulcis in fundo – assicurazione a copertura di danni personali e a terzi». Il Jova Beach Party aveva già fatto parlare di sé per i rischi presunti o reali causati all’ambiente, considerando che le date si terranno su spiagge o addirittura a Plan de Corones, in Alto Adige. Gli organizzatori hanno cercato di replicare alle critiche sul danno ambientale dell’evento, rimane il nodo della pulizia dei luoghi che gli organizzatori assicurano. Mentre rete e giornali non hanno fatto attendere la propria posizione sulla quesitone ambientale – sacrosanta – ben poco, se non nulla, si è sentito per le condizioni di lavoro di centinaia di lavoratori non pagati perché definiti volontari usati proprio per garantire il rispetto dell’ambiente. Dalle 8 di mattina a fine concerto. E bisogna che ti consideri un ragazzo fortunato a fare 16 ore gratis perché ti hanno regalato un sogno, un panino e un gadget. Neppure i sali minerali per resistere in caso di calo di pressione sotto il sole cocente di un’estate dalle temperature record. Verrebbe da fare ironia se non si trattasse di una situazione talmente seria da non poterci permettere alcun sarcasmo. Pare che in media il costo di produzione di ciascuna data si aggiri attorno al milione e mezzo di euro e facendo due calcoli, con una media di 50 mila spettatori al modico prezzo di 60 euro ciascuno, il fatturato di tre milioni. Profitto 1,5 milioni di euro a serata. Panino più bibita più maglietta e cappellino per chi invece lavora dalla mattina a notte inoltrata. Guarda mamma come ci si diverte a far lavorare la gente gratis, a non fare i contratti e guadagnare un casino di soldi.
Il caso del Jova Beach Party è altresì emblematico perché sostenuto dal Wwf allo scopo di sensibilizzare contro l’uso della plastica monouso, un testimonial che per una azione che sì dovrebbe essere prassi comune quotidiana di qualsiasi cittadino guadagna un milione e mezzo circa. Che in questo paese, ma non solo, i lavoratori subiscano da decenni attacchi spietati alle proprie condizioni di lavoro, ai salari, ai diritti sociali è cosa nota. Giorno dopo giorno, un pezzettino più o meno grande alla volta. In questa quotidianità si affermano e consolidano pratiche di completo rovesciamento ideologico, di cui la più in voga pare essere quella del lavoro definito volontariato affinché acquisisca una natura benevola, dove quel che importa è la partecipazione, la condivisione di un interesse che non sia un rapporto tra chi comanda e chi esegue, ma la condivisione di un momento di utilità sociale, che fa apparire di cattivo gusto ogni pretesa del fondamento stesso del lavoro nel nostro sistema capitalistico l’interesse monetario – quello di ricevere una retribuzione per la fatica fatta.
Così sul lavoro gratuito, ridenominato volontariato, oggi poggiano interi settori economici che fanno profitto, che hanno bisogno di lavoratori ma possono far leva sull’immaginario – del volontario sorridente o del disoccupato che si prende cura delle aiuole sotto casa – per risparmiare sui costi e quindi fare più profitti. O risparmiare di più come nel caso del volontariato fatto presso le amministrazioni pubbliche.
Tra questi settori, merita un posto d’eccezione, per la pervasività del fenomeno, quello della produzione culturale dove festival di ogni tipo, musei, concerti, mostre, fino ad arrivare ai grandi eventi internazionali stanno letteralmente in piedi grazie al lavoro gratuito di centinaia di volontari. Il caso Expo Milano ha fatto scuola: 18 mila volontari furono ingaggiati gratuitamente – con l’accordo dei sindacati confederali – perché un salario vale meno del «costruire un network di relazioni vere basato su entusiasmo, energia, talento, intraprendenza, voglia di fare ed esperienze vissute, che potrà esserti utile anche nel tuo futuro», come si poteva leggere sui depliant di reclutamento. L’importante è pensare positivo. Negli anni abbiamo visto migranti con la pettorina gialla pulire gli escrementi dei cavalli a capo delle carrozze di una processione locale. E li abbiamo ritrovati a pulire il Parco Ferrari di Modena, dopo il concerto di Vasco Rossi. Parliamo di eventi che generano milioni di fatturato, tra biglietti, sponsor e tutti i costi risparmiati grazie alla messa a disposizione di infrastrutture pubbliche a danno anche degli abitanti di quegli stessi luoghi, visto che la spiaggia libera che è stata scelta come location dell’evento verrà chiusa al pubblico: un bene comune sottratto per venti lunghi giorni. Un apparato il cui incommensurabile valore collettivo è letteralmente messo a disposizione di imprese e profitti privati: sia quelli dell’organizzazione che quelli del luogo. Il turismo, petrolio d’Italia, ma anche eventi culturali, concerti, fiere, sagre. Ne approfittano tutti, tranne i lavoratori che se non lavorano gratuitamente, ricevono salari del tutto indecenti, come i lavoratori che hanno smontato l’imponente palco di Ultimo dopo il concerto allo stadio Olimpico di Roma. Quattro euro l’ora, molti di loro neppure con uno straccio di contratto per la giornata lavorata. Gli organizzatori si giustificano: «non sono nostri lavoratori». Si tratta di una deresponsabilizzazione ricercata: lavoratori in nero, sottopagati e finti volontari sono cooptati e gestiti attraverso cooperative o agenzie, strutturate o di comodo. È il sempiterno gioco delle tre carte, tra appalti e subappalti, lo stesso che imperversa lungo il cilo di produzione di ormai tutti i settori economici.
Fuori fuoco appaiono anche le contro-critiche secondo cui nessuno costringe queste persone ad accettare, anzi spesso lo fanno proprio con entusiasmo perché possono godersi un concerto a cui non avrebbero potuto partecipare. Per mancanza di soldi, molto probabilmente. Un argomento che fa acqua da tutte le parti. Primo perché quelle attività sono necessarie al buon funzionamento dell’evento, parti indispensabili della produzione ed è surreale poter pensare di non essere disposti neppure a retribuirle dal momento che senza questo lavoro non ci sarebbe alcun concerto. Un ragionamento che va esteso a qualsiasi attività economica che non può definirsi tale senza la minima capacità di retribuire i propri fattori di produzione. Vale nell’industria culturale come in tutte le altre. Tornando al punto delle contro-critiche, bisogna dire che per ogni volontario arruolato c’è un lavoratore disoccupato che rimane a casa, uno dei tanti, troppi a cui quotidianamente si vuol fare credere che la propria condizione è il risultato delle proprie scelte, scarse attitudini, responsabilità individuale. E non c’entra nulla l’avere a cuore il proprio territorio o la sagra tradizionale del proprio comune per cui fare i volontari è quasi un orgoglio, come lo è stato per decenni per i militanti dei partiti che gestivano le proprie feste – che nel momento in cui sono venuti meno i militanti hanno iniziato ad usare anche gli studenti in alternanza scuola-lavoro. Non esiste militanza quando questa attività accresce i profitti di uno o di pochi, quando quel che produci non è anche tuo, non puoi dividerlo con la tua comunità.
Inoltre, qualcuno dovrà prima o poi chiedersi come mai un giovane non può permettersi di andare a un concerto e preferisce lavorare più di dodici ore sotto il sole, con uno sforzo fisico non indifferente – non sta mica su una poltrona massaggiatrice – pur di goderselo. Sarà che i prezzi sono troppo alti e allo stesso tempo i salari troppo bassi, addirittura nulli in molti troppi casi, come in questo. Poiché come società forse non abbiamo ancora la forza di pretendere la cultura gratuita o accessibile per tutti, potremmo almeno avere la dignità di chiedere salari più alti, salari decenti. Il problema è tutto nostro perché dall’altro lato, quelli che propongono e sostengono tali pratiche, sanno bene che impiegare volontari ha anche l’effetto di dissuadere chi invece nel gruppo ha ancora un piccolo salario, un rimborso spese. Il ricatto è presto sul tavolo: o così o prendiamo un altro volontario.
Qui si apre una partita per nulla semplice che investe non soltanto questo settore e in cui non è possibile giocare da soli. Rivendicare i diritti di uno o di tutti rimane uno sport collettivo, che prende forma se e solo se ci si oppone a una deriva anche quando privatamente ci può fare comodo. La questione salariale ombelico del mondo!
Aggiornamento. Riceviamo dall’ufficio stampa di Jovanotti un chiarimento sull’organizzazione del lavoro dei volontari durante il #JovaBeachParty. Si puntualizza che questi ultimi saranno impiegati dalle 13 alle 23.30 circa e che riceveranno non un panino – come abbiamo scritto – ma due pasti più due buoni drink. La precisazione non smentisce quanto abbiamo scritto sul fenomeno del lavoro gratuito, mascherato da volontariato, nel settore dell’industria culturale in genere e di questo evento nello specifico. A ben vedere, non hanno nessun problema a rivendicarlo, perché in fin dei conti il problema è tutto nostro, di quelli che questo fenomeno dobbiamo combattere, come lavoratori, come cittadini e come consumatori di cultura.
Marta Fana
12/7/2019 https://jacobinitalia.it
*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).
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